mercoledì 21 agosto 2013
Afrodite
(da Rory)

Afrodite nella religione greca è la dea della bellezza, della sessualità, della sensualità e della lussuria.
si dice che sia nata dalla spuma del mare, quando alcune gocce di sangue dei genitali di Urano caddero in acqua.
Afrodite è spesso descritta come permalosa e vanitosa, era una delle poche dee ad essere sposata ma era spesso infedele al proprio marito. Visto che era talmente belle Zeus si preoccupava che gli dei potessero litigare per lei, così la diede in sposa a Efesto, dio del fuoco. Però esiste anche un'altra versione della storia: Era, madre di Efesto, lo cacciò dall'Olimpo poichè lo riteneva troppo brutto ma lui si vendicò intrappolandola in un trono magico e in cambio della sua liberazione chiese la mano di Afrodite, però lei non era molto entusiasta di questo matrimonio e quindi cercava la sua felicità altrove con alti dei e altri uomini più frequentemente con Adone, Ares e Anchise.
Ebbe anche diversi figli, trentatré, ventiquattro da delle divinità e diciannove da dei mortali.
Afrodite ebbe una parte nella nascita di Adone, uno dei suoi amanti. Spinse Mirra a commettere un incesto con suo padre, Teia re di Assiria, una volta nato Adone, Afrodite lo prese sotto la sua ala e con l'aiuto di Elena lo sedusse. Poi lo diede a Persefone, perchè lo vegliasse, ma anche lei fu ammagliata dalla sua bellezza e non voleva restituirlo, però Zeus mise pace tra le due dicendo che Adone sarebbe stato quattro mesi l'anno con Afrodite, quattro con Persefone e altri quattro da solo. Purtroppo alla fine Adone venne ucciso da Ares perchè era geloso di lui, si narra che Afrodite abbia avuto una figlia con Adone, Beroe.
La dea dell'amore non era benvista dalle rappresentanti del proprio sesso, basta pensare alle sventure che portò ad Elena, Pasifac,Fedra e a molte altre.
Afrodite ama per il piacere di amare, sceglie lei i suoi amanti non facendosi mai scegliere dagli altri. Con il suo cinto magico, che usa per sedurre i suoi amanti, fa dono della suo bellezza e del suo amore. Lei, sì incarna l'amore, ma prima di tutto per se stessa e poi per gli altri.



L’armata perduta
(da Lulù)

Titolo: L’armata perduta
Autore: Valerio Massimo Manfredi
Casa editrice: Mondadori (e ti pareva!)
Pagine: 431
Prezzo:
 5.90
Trama:
Una delle più epiche avventure dell'età antica: la lunghissima marcia, attraverso incredibili pericoli e peripezie, che diecimila mercenari greci dopo la disfatta del principe persiano Ciro, sotto le cui insegne si erano battuti, contro il fratello Artaserse alle porte di Babilonia - compiono per tornare in patria. È l'impresa gloriosa e tragica documentata nel IV secolo a.C. da Senofonte nell'Anabasi, che proprio Valerio Massimo Manfredi ha studiato e tradotto negli anni '80. Ma in questo romanzo le atrocità della guerra e l'eroismo di ogni soldato, il fasto e le crudeli bizzarrie della corte persiana, le insidie di una natura selvaggia e le amicizie più indissolubili sono narrate in una prospettiva completamente inedita: dalla voce di una donna, la bellissima siriana Abira, che per amore di Xenos lascia ogni cosa e condivide il destino dei Diecimila. Attraverso gli occhi di Abira, le donne diventano le protagoniste della grande Storia. 



La prof di greco ci ha assegnato di leggere questo libro.
Personalmente sono rimasta traumatizzata.
Penso di non aver mai letto qualcosa di peggiore in vita mia. Pensate che sono quasi arrivata al punto di dire “Se esiste tanto orrore, non voglio più leggere un libro per non rischiare di ritrovarmi in una situazione simile”. In questo momento ho un grandissimo bisogno di disintossicarmi e lo sto facendo leggendo un nutrissimo saggio su Carlo Magno. Sempre assegnato per scuola, ma almeno non è un romanzo.
Insomma se è una palla non mi stupisco più di tanto.
Comunque la prof ci ha assegnato di scrivere anche un commento.
Ecco cosa si troverà davanti la mia cara vecchia professoressa. Che farebbe bene a farmi il piacere di non assegnarci più qualcosa da leggere.

La trama de “L’armata perduta” è piuttosto semplice e lineare: un principe persiano, di nome Ciro, recluta un grande esercito per usurpare il trono di suo fratello Artaserse, Gran Re dell’Impero persiano, ma viene sconfitto e il suo esercito inizia una drammatica ritirata attraverso l’Asia nel bel mezzo dell’inverno.
Questa è la parte della storia che Manfredi prende pari pari dall’Anabasi (e infatti ha un senso), ma lo “scrittore” è pur costretto ad aggiungere qualcosa di suo per non correre il rischio di vedere Senofonte tornare indignato dall’Ade e accusarlo di plagio.
Quindi introduce Abira, ragazza barbara che segue l’esercito perché amante di Senofonte, nel libro generalmente chiamato Xeno.
Essendosi Senofonte trasformato in un novello Giasone, Abira torna nel proprio villaggio dove viene lapidata perché a suo tempo era fuggita con Xeno, ma delle ragazzine la salvano e a loro Abira racconta la sua storia.
Niente di più semplice ed elementare, una trama facile da svolgere e un intreccio intuitivo e controllabile.
Eppure Manfredi non riesce a farlo e spesso si mette in situazioni a dir poco imbarazzanti.
Un esempio può essere questa frase che Manfredi attribuisce a una delle salvatrici di Abira:

“Quella poveretta doveva essere sfinita perché non sembrò pesante nemmeno per delle ragazzine come noi.”

“Sfinita” significa “stanca, senza più forze”: in che modo la stanchezza può influire sul peso di una persona? Un obeso di 500 kg può essere sfinito ma non per questo diventa una piuma.
Poco dopo c’è un’altra scena imbarazzante: Abira chiede notizie della sua famiglia.
Tenendo conto che le ragazzine non conoscono Abira, che  quest’ultima non ha nemmeno detto i nomi dei propri genitori e che nel villaggio vige l’assoluto silenzio sulla fuga di Abira, come hanno fatto le ragazzine a capire di quale famiglia si tratta? E a dare informazioni così particolareggiate?
Ma lasciando perdere questi cavilli logici, Manfredi fa molto di più che scrivere stupidaggini, arrivando perfino a contraddirsi da solo.
A un certo punto della storia fa dire ad Abira che lei non ha mai visto o sentito gli uccelli.
È una cosa assurda già di per sé (in quale angolo del mondo non c’è almeno un uccello?), ma in questo caso è particolarmente assurda perché nelle pagine precedenti Manfredi ha diligentemente provveduto a inserire avvoltoi che si gettano sui cadaveri o volatili vari che finiscono sulla tavola dei soldati grazie all’abilità di cacciatore di Xeno, quindi Abira non solo ha già visto gli uccelli, ma li ha anche cucinati e mangiati.
Una cosa simile la fa anche con il mare: quando l’esercito raggiunge la costa dopo aver attraversato la zona montuosa dell’Impero persiano Abira dice di non aver mai visto il mare.
Possibilissimo, peccato che all’inizio del libro, quando Ciro stava per rimanere senza esercito perché non pagava i soldati, l’allegra compagnia era accampata vicino al mare. Forse Abira è stata tutto il tempo con gli occhi chiusi…
Comunque, nel complesso, sarebbero state tutte cose su cui si poteva soprassedere, se fossero state raccontate in modo decoroso.
Ma no, Manfredi non solo decide di scrivere un libro noiosissimo e di farcirlo con tante stupidaggini, ma decide di scriverlo anche male.
La prima cosa che salta agli occhi aprendo il libro è la lista iniziale dei personaggi.
Una cosa normalissima in un copione teatrale, ma che fa arricciare il naso in un romanzo.
Perché in un copione teatrale è ammessa su detta lista?
Perché i copioni sono testi abbastanza brevi e magari uno scrittore non ha lo spazio di sviluppare e inquadrare per bene tutti i suoi personaggi. E poi il copione ha un carattere pratico, mira a creare una rappresentazione teatrale, non è nato per la lettura. Insomma è un’altra cosa e la lista dei personaggi è presente sempre.
In un romanzo invece questo è un espediente orribile e grossolano perché lo spazio per caratterizzare i personaggi c’è e il lettore dovrebbe ricordarsi di loro senza andare a consultare la lista iniziale.
D’altra parte, ora che ci penso, non posso veramente stupirmi della presenza di questa lista (all’inizio del libro poi, perché se fosse stata alla fine sarebbe stato diverso) perché tutto questo libro è grossolano dentro.
E in fondo la decisione di inserire questa lista, per quanto poco elegante, si è rivelata stranamente opportuna perché i personaggi di Manfredi hanno la consistenza dell’aria fritta e lo spessore della carta velina.
Non restano impressi perché non hanno personalità.
Al massimo Xeno e Abira sono appena appena sbozzati e hanno qualche caratteristica, ma è perché Manfredi ha incollato loro in fronte un’etichetta, non perché sono loro vivi a crearsi e ricrearsi sulla scena.
In questo romanzo non ci sono personaggi, c’è solo Manfredi che di volta in volta muove questo o quel burattino.
E questo atteggiamento invasivo di Manfredi si percepisce di continuo.
Quando qualcuno critica i tributi che l’Impero persiano riscuote, critica la schiavitù o l’inferiorità delle donne non è quel qualcuno che parla, ma è Manfredi.
È Manfredi che parla perché quasi 2500 anni fa una persona era perfettamente inserita  in questo sistema solidamente vigente da secoli, lo considerava normale e non si sarebbe mai sognato di contestarlo.
La cosa si potrebbe magari capire se il personaggio in questione avesse alle spalle qualche particolare vissuto che lo porti a essere “ribelle” ma Manfredi non ci dà nessuna notizia del genere.
Semplicemente costui non rispetta i propri personaggi o non sa contestualizzarli bene.
E questa cosa è il più grande insulto che uno scrittore può fare a noi lettori e a tutto il mondo della narrativa.
La violenza di Manfredi sui propri personaggi è particolarmente evidente nell’incontro fra Abira e Xeno. I due si vedono, si innamorano e fuggono insieme senza nemmeno dirsi una parola (Abira non parla il greco e Xeno non parla l’ignota lingua di Abira).
Perché?
Fra Xeno e Abira non c’è nessuna particolare affinità, in base a cosa i due si innamorano e continuano la loro relazione?
Perché Manfredi ha deciso così.
Non si percepisce l’amore, che a sentire Abira dovrebbe essere travolgente, ma si sa che c’è perché ce lo dice Manfredi.
Tutto molto arido. Ed è troppo poco.
Io non mi accontento di una storia d’amore campata per aria, che esiste perché il burattinaio ha deciso così, soprattutto se questa storia d’amore è l’avvenimento che mette in moto il romanzo.
Almeno all’inizio, poteva e doveva essere sviluppata meglio. Quasi per esigenze di trama.
Anche il finale è forzatissimo e assolutamente campato per aria.
Una nuova storia d’amore sboccia così all’improvviso fra Abira e quello stesso Menon che davamo per morto da almeno mezzo libro.
Come si è salvato? Come ha trovato Abira?
Sono tutte domande cui Manfredi non si degna di darci risposta creando così un buco nella trama grande quanto una voragine.
Però devo ammettere una cosa e cioè che almeno la storia d’amore fra Abira e Menon ha una qualche base: almeno qualche volta si sono parlati!
Ma diciamo che si può accettare anche uno stile narrativo spregevole.
Gli scrittori incapaci esistono, è risaputo e non si scandalizza più nessuno.
Ma accettare gli aborti grammaticali che quest’uomo è capace di partorire, questo sì che impossibile!
Soprattutto tenendo conto che il signor Manfredi è uno “scrittore” (non vorrei dargli questo titolo, ma a quanto pare per esserlo basta pubblicare un qualsiasi libro orribile) e un professore universitario.
Come si può pretendere che questo povero paese non sprofondi nei più oscuri abissi dell’ignoranza se le stesse persone che in teoria dovrebbero essere le più istruite (appunto i professori universitari) sono incapaci di scrivere in un italiano corretto?
Manfredi in particolare litiga con il periodo ipotetico e con la concordanza soggetto-predicato.
Ecco per esempio una frase che si legge ne “L’armata perduta”:

“Se resisteva Ciro lo avrebbe travolto.”

Ora, due sono le possibili interpretazioni: o è un periodo ipotetico della realtà (e in tal caso il verbo dell’apodosi andrebbe all’indicativo, mentre Manfredi l’ha messo al condizionale) o è un periodo ipotetico della possibilità (e in tal caso il verbo della protasi andrebbe al congiuntivo, mentre Manfredi l’ha messo all’indicativo).
Quindi le fresi corrette sarebbero:
-PI della realtà: Se resisteva Ciro lo travolgeva (un po’ orribile da sentire)
-PI della possibilità: Se avesse resistito Ciro lo avrebbe travolto
Insomma, comunque la si voglia girare, un pezzo è sempre sbagliato.
Ma Manfredi riesce a fare ancora di peggio.
La prima cosa che si insegna ai bambini alle elementari è che il predicato concorda con il suo soggetto in numero ed eventualmente anche in genere.
Evidentemente questa cosa Manfredi ancora non l’ha capita, perché scrive frasi tipo:
“Trascorsero una quindicina di giorni”.
Il soggetto è “quindicina” ed è singolare, ma quella capra ha preferito concordare il verbo con il complemento di specificazione!
Una persona umana avrebbe scritto Trascorse una quindicina di giorni.
Oppure:
“C’era vegetazione, erba, fiori e piante”.
Visto che tutti gli elementi nominati fanno parte del soggetto, questo è plurale e quindi il verbo andrebbe al plurale C’erano vegetazione, erba, fiori e piante.
O ancora:
“Arieo e il suo esercito, che doveva essere il nostro alleato, si era unito a Tissaferne”.
Il soggetto è “Arieo e il suo esercito” quindi la frase dovrebbe andare tutta al plurale Arieo e il suo esercito, che dovevano essere i nostri alleati, si erano uniti a Tissaferne”.
Cosa assurde a cui non riuscirei a credere se non le avessi lette io stessa.
Manfredi è peggio di Moccia! Almeno Moccia i singolari e plurali li indovina e non viene osannato a destra e a manca come questo tizio!
Quindi, per concludere, libro orribile scritto da un cretino.
E se mai mi capiterà di rincontrare costui (per fortuna quando sono andata a vedere una sua conferenza non avevo ancora letto nulla di suo) sarò lietissima di tirargli un pugno in faccia.

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Rory e Lulù
Siamo due cuginette, Luisa e Rosa, che vivendo lontane hanno deciso di scrivere un blog insieme. A Luisa piace leggere, guardare gli anime e studiare (che secchiona!!!); a Rosa piace leggere, vedere film e scrivere. Speriamo tanto di riuscire a intrattenervi e ad interessarvi e che questo blog vi piaccia!
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