giovedì 16 maggio 2013


Il Carpe diem orientale
(da Lulù)

Nella didattica scolastica c’è qualcosa di profondamente sbagliato.
Di poesie a questo mondo ce ne sono tante e molte sono anche molto interessanti e belle, perché limitarsi a fare “percorsi tematici”, come li chiamano i prof, noiosi e barbosi? Quattro mesi a leggere i sonetti dello Stilnovo, con Dante in estasi e Petrarca che si fa venire le turbe psichiche; due mesi a leggere i sonetti della poesia comico-realistica, con Filippi che vede le giraffe negli uomini e Angiolieri che cerca la taverna, la donna e il dado; per non parlare, dulcis in fundo, degli autoritratti dei poeti, quelli sì che sono espressione di poesia pura!
Così, mentre la professoressa se la suona e se la canta da sola blaterando su “Sublime specchio di veraci detti” o su “Solcata ho fronte, occhi incavati intenti” o ancora su “Capel bruno; alta fronte; occhio loquace” (sì, e al popolo?), mi ritrovo a sfogliare il libro di poesia alla ricerca di… beh, di qualcosa che si possa chiamare poesia.
Dopo sì e no 30 pagine dall’alta fronte di Manzoni inizia un altro “percorso tematico”: Le domande di sempre.
Di certo più interessante degli occhi di Foscolo o del pallore di Alfieri.
Sfoglia, sfoglia, mi trovo davanti il dipinto che ho messo qui sopra; e mi incanto. Quell’onda e quella ragazza mi piacciono davvero tanto.
È naturale quindi che, dopo essermi saziata gli occhi con il quadro, abbia letto la poesia che c’è sopra.
È l’XI Ode del Libro I di Orazio. Ed è, a mio parere, una poesia bella.
Giudicate voi:

Non domandare tu mai
quando si chiuderà la tua
vita, la mia vita,
non tentare gli oroscopi d’oriente:
male è sapere, Leucònoe.
Meglio accettare quello che verrà,
gli altri inverni che Giove donerà
o se è l’ultimo, questo
che stanca il mare etrusco
e gli scogli di pomice leggera.
Ma sii saggia: e filtra vino
e recidi la speranza
lontana, perché breve è il nostro
cammino, e ora, mentre
si parla, il tempo
è già in fuga, come se ci odiasse!
Così cogli
l’attimo, non credere al domani.

Quel “cogli l’attimo” degli ultimi due versi è la traduzione dell’espressione latina Carpe diem. Non penso che ci voglia un genio per capire il senso di questa poesia: il tempo è infido, e senza che nemmeno ce ne accorgiamo scorre via velocemente, il futuro è incerto, per quel che ne sappiamo noi potremmo non averne nemmeno uno (Quant’è bella giovinezza/ che si fugge tuttavia/ chi vuol esser lieto sia/ del domani non c’è certezza. Lorenzo il Magnifico), quindi noi dobbiamo approfittare di ogni momento presente che viviamo, perché solo sul presente possiamo agire e possiamo fare affidamento. E dobbiamo farlo senza pensare al futuro e senza sperarci, proprio perché il futuro è traditore e potrebbe non esserci.
Insomma è la versione poetica e latina di “Vivi ogni giorno della tua vita come se fosse l’ultimo” e “Non rimandare al domani ciò che puoi fare oggi”.
Infondo i nostri proverbi sono lo specchio della nostra cultura che a sua volta altro non è che latinità che non parla più il latino.



La cosa interessante è che il Carpe diem non è un concetto solamente latino-classico. Nel XII secolo un importantissimo astronomo e matematico persiano, Omar Khayyam (il nome completo e in lingua originale sarebbe: Ghiyāth al-Dīn Abū l-Fatḥ ʿUmar ibn Ibrāhīm al-Nīsābūrī al-Khayyāmī. Vi sfido a ricordarlo!), scriveva per diletto delle poesie in forma di Quartine, forma poetica tipica della poesia orientale formata (ma guarda un po’!) da quattro versi.
Le sue Quartine trattano essenzialmente tre temi: l’elogio dell’ebbrezza (sono suoi i versi “Pien di stupore son io pei venditori di vino, ché quelli / che cosa mai posson comprare migliore di quel ch'han venduto?”, diretti progenitori culturali e ideali di quelli di De Andrè “sembra di sentirlo ancora / dire al mercante di liquore / tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?”), l’attacco al bigottismo religioso e alle forme di religione organizzata e la brevità della vita umana.
È interessante leggere a questo proposito la Quartina numero 33:

Non ricordare il giorno trascorso
e non perderti in lacrime sul domani che viene:
su passato e futuro non far fondamento
vivi dell’oggi e non perdere al vento la vita.

Non è esattamente quello che ha detto Orazio, solo in forma più essenziale e coincisa?
Quindi se la nostra cultura è latinità che non parla più il latino e gli stessi valori della civiltà classica li ritroviamo in quella persiana, la nostra cultura è anche “persianità” che non ha mai parlato il persiano?

2 commenti:

Unknown ha detto...

Complimenti, è un pensiero molto interessante ed espresso in forma di saggio breve. Sono d'accordo con ciò che hai detto. :D

Rory e Lulù ha detto...

Grazie! Mi fa piacere che tu abbia apprezzato =)

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Rory e Lulù
Siamo due cuginette, Luisa e Rosa, che vivendo lontane hanno deciso di scrivere un blog insieme. A Luisa piace leggere, guardare gli anime e studiare (che secchiona!!!); a Rosa piace leggere, vedere film e scrivere. Speriamo tanto di riuscire a intrattenervi e ad interessarvi e che questo blog vi piaccia!
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