mercoledì 21 agosto 2013
Afrodite
(da Rory)

Afrodite nella religione greca è la dea della bellezza, della sessualità, della sensualità e della lussuria.
si dice che sia nata dalla spuma del mare, quando alcune gocce di sangue dei genitali di Urano caddero in acqua.
Afrodite è spesso descritta come permalosa e vanitosa, era una delle poche dee ad essere sposata ma era spesso infedele al proprio marito. Visto che era talmente belle Zeus si preoccupava che gli dei potessero litigare per lei, così la diede in sposa a Efesto, dio del fuoco. Però esiste anche un'altra versione della storia: Era, madre di Efesto, lo cacciò dall'Olimpo poichè lo riteneva troppo brutto ma lui si vendicò intrappolandola in un trono magico e in cambio della sua liberazione chiese la mano di Afrodite, però lei non era molto entusiasta di questo matrimonio e quindi cercava la sua felicità altrove con alti dei e altri uomini più frequentemente con Adone, Ares e Anchise.
Ebbe anche diversi figli, trentatré, ventiquattro da delle divinità e diciannove da dei mortali.
Afrodite ebbe una parte nella nascita di Adone, uno dei suoi amanti. Spinse Mirra a commettere un incesto con suo padre, Teia re di Assiria, una volta nato Adone, Afrodite lo prese sotto la sua ala e con l'aiuto di Elena lo sedusse. Poi lo diede a Persefone, perchè lo vegliasse, ma anche lei fu ammagliata dalla sua bellezza e non voleva restituirlo, però Zeus mise pace tra le due dicendo che Adone sarebbe stato quattro mesi l'anno con Afrodite, quattro con Persefone e altri quattro da solo. Purtroppo alla fine Adone venne ucciso da Ares perchè era geloso di lui, si narra che Afrodite abbia avuto una figlia con Adone, Beroe.
La dea dell'amore non era benvista dalle rappresentanti del proprio sesso, basta pensare alle sventure che portò ad Elena, Pasifac,Fedra e a molte altre.
Afrodite ama per il piacere di amare, sceglie lei i suoi amanti non facendosi mai scegliere dagli altri. Con il suo cinto magico, che usa per sedurre i suoi amanti, fa dono della suo bellezza e del suo amore. Lei, sì incarna l'amore, ma prima di tutto per se stessa e poi per gli altri.



L’armata perduta
(da Lulù)

Titolo: L’armata perduta
Autore: Valerio Massimo Manfredi
Casa editrice: Mondadori (e ti pareva!)
Pagine: 431
Prezzo:
 5.90
Trama:
Una delle più epiche avventure dell'età antica: la lunghissima marcia, attraverso incredibili pericoli e peripezie, che diecimila mercenari greci dopo la disfatta del principe persiano Ciro, sotto le cui insegne si erano battuti, contro il fratello Artaserse alle porte di Babilonia - compiono per tornare in patria. È l'impresa gloriosa e tragica documentata nel IV secolo a.C. da Senofonte nell'Anabasi, che proprio Valerio Massimo Manfredi ha studiato e tradotto negli anni '80. Ma in questo romanzo le atrocità della guerra e l'eroismo di ogni soldato, il fasto e le crudeli bizzarrie della corte persiana, le insidie di una natura selvaggia e le amicizie più indissolubili sono narrate in una prospettiva completamente inedita: dalla voce di una donna, la bellissima siriana Abira, che per amore di Xenos lascia ogni cosa e condivide il destino dei Diecimila. Attraverso gli occhi di Abira, le donne diventano le protagoniste della grande Storia. 



La prof di greco ci ha assegnato di leggere questo libro.
Personalmente sono rimasta traumatizzata.
Penso di non aver mai letto qualcosa di peggiore in vita mia. Pensate che sono quasi arrivata al punto di dire “Se esiste tanto orrore, non voglio più leggere un libro per non rischiare di ritrovarmi in una situazione simile”. In questo momento ho un grandissimo bisogno di disintossicarmi e lo sto facendo leggendo un nutrissimo saggio su Carlo Magno. Sempre assegnato per scuola, ma almeno non è un romanzo.
Insomma se è una palla non mi stupisco più di tanto.
Comunque la prof ci ha assegnato di scrivere anche un commento.
Ecco cosa si troverà davanti la mia cara vecchia professoressa. Che farebbe bene a farmi il piacere di non assegnarci più qualcosa da leggere.

La trama de “L’armata perduta” è piuttosto semplice e lineare: un principe persiano, di nome Ciro, recluta un grande esercito per usurpare il trono di suo fratello Artaserse, Gran Re dell’Impero persiano, ma viene sconfitto e il suo esercito inizia una drammatica ritirata attraverso l’Asia nel bel mezzo dell’inverno.
Questa è la parte della storia che Manfredi prende pari pari dall’Anabasi (e infatti ha un senso), ma lo “scrittore” è pur costretto ad aggiungere qualcosa di suo per non correre il rischio di vedere Senofonte tornare indignato dall’Ade e accusarlo di plagio.
Quindi introduce Abira, ragazza barbara che segue l’esercito perché amante di Senofonte, nel libro generalmente chiamato Xeno.
Essendosi Senofonte trasformato in un novello Giasone, Abira torna nel proprio villaggio dove viene lapidata perché a suo tempo era fuggita con Xeno, ma delle ragazzine la salvano e a loro Abira racconta la sua storia.
Niente di più semplice ed elementare, una trama facile da svolgere e un intreccio intuitivo e controllabile.
Eppure Manfredi non riesce a farlo e spesso si mette in situazioni a dir poco imbarazzanti.
Un esempio può essere questa frase che Manfredi attribuisce a una delle salvatrici di Abira:

“Quella poveretta doveva essere sfinita perché non sembrò pesante nemmeno per delle ragazzine come noi.”

“Sfinita” significa “stanca, senza più forze”: in che modo la stanchezza può influire sul peso di una persona? Un obeso di 500 kg può essere sfinito ma non per questo diventa una piuma.
Poco dopo c’è un’altra scena imbarazzante: Abira chiede notizie della sua famiglia.
Tenendo conto che le ragazzine non conoscono Abira, che  quest’ultima non ha nemmeno detto i nomi dei propri genitori e che nel villaggio vige l’assoluto silenzio sulla fuga di Abira, come hanno fatto le ragazzine a capire di quale famiglia si tratta? E a dare informazioni così particolareggiate?
Ma lasciando perdere questi cavilli logici, Manfredi fa molto di più che scrivere stupidaggini, arrivando perfino a contraddirsi da solo.
A un certo punto della storia fa dire ad Abira che lei non ha mai visto o sentito gli uccelli.
È una cosa assurda già di per sé (in quale angolo del mondo non c’è almeno un uccello?), ma in questo caso è particolarmente assurda perché nelle pagine precedenti Manfredi ha diligentemente provveduto a inserire avvoltoi che si gettano sui cadaveri o volatili vari che finiscono sulla tavola dei soldati grazie all’abilità di cacciatore di Xeno, quindi Abira non solo ha già visto gli uccelli, ma li ha anche cucinati e mangiati.
Una cosa simile la fa anche con il mare: quando l’esercito raggiunge la costa dopo aver attraversato la zona montuosa dell’Impero persiano Abira dice di non aver mai visto il mare.
Possibilissimo, peccato che all’inizio del libro, quando Ciro stava per rimanere senza esercito perché non pagava i soldati, l’allegra compagnia era accampata vicino al mare. Forse Abira è stata tutto il tempo con gli occhi chiusi…
Comunque, nel complesso, sarebbero state tutte cose su cui si poteva soprassedere, se fossero state raccontate in modo decoroso.
Ma no, Manfredi non solo decide di scrivere un libro noiosissimo e di farcirlo con tante stupidaggini, ma decide di scriverlo anche male.
La prima cosa che salta agli occhi aprendo il libro è la lista iniziale dei personaggi.
Una cosa normalissima in un copione teatrale, ma che fa arricciare il naso in un romanzo.
Perché in un copione teatrale è ammessa su detta lista?
Perché i copioni sono testi abbastanza brevi e magari uno scrittore non ha lo spazio di sviluppare e inquadrare per bene tutti i suoi personaggi. E poi il copione ha un carattere pratico, mira a creare una rappresentazione teatrale, non è nato per la lettura. Insomma è un’altra cosa e la lista dei personaggi è presente sempre.
In un romanzo invece questo è un espediente orribile e grossolano perché lo spazio per caratterizzare i personaggi c’è e il lettore dovrebbe ricordarsi di loro senza andare a consultare la lista iniziale.
D’altra parte, ora che ci penso, non posso veramente stupirmi della presenza di questa lista (all’inizio del libro poi, perché se fosse stata alla fine sarebbe stato diverso) perché tutto questo libro è grossolano dentro.
E in fondo la decisione di inserire questa lista, per quanto poco elegante, si è rivelata stranamente opportuna perché i personaggi di Manfredi hanno la consistenza dell’aria fritta e lo spessore della carta velina.
Non restano impressi perché non hanno personalità.
Al massimo Xeno e Abira sono appena appena sbozzati e hanno qualche caratteristica, ma è perché Manfredi ha incollato loro in fronte un’etichetta, non perché sono loro vivi a crearsi e ricrearsi sulla scena.
In questo romanzo non ci sono personaggi, c’è solo Manfredi che di volta in volta muove questo o quel burattino.
E questo atteggiamento invasivo di Manfredi si percepisce di continuo.
Quando qualcuno critica i tributi che l’Impero persiano riscuote, critica la schiavitù o l’inferiorità delle donne non è quel qualcuno che parla, ma è Manfredi.
È Manfredi che parla perché quasi 2500 anni fa una persona era perfettamente inserita  in questo sistema solidamente vigente da secoli, lo considerava normale e non si sarebbe mai sognato di contestarlo.
La cosa si potrebbe magari capire se il personaggio in questione avesse alle spalle qualche particolare vissuto che lo porti a essere “ribelle” ma Manfredi non ci dà nessuna notizia del genere.
Semplicemente costui non rispetta i propri personaggi o non sa contestualizzarli bene.
E questa cosa è il più grande insulto che uno scrittore può fare a noi lettori e a tutto il mondo della narrativa.
La violenza di Manfredi sui propri personaggi è particolarmente evidente nell’incontro fra Abira e Xeno. I due si vedono, si innamorano e fuggono insieme senza nemmeno dirsi una parola (Abira non parla il greco e Xeno non parla l’ignota lingua di Abira).
Perché?
Fra Xeno e Abira non c’è nessuna particolare affinità, in base a cosa i due si innamorano e continuano la loro relazione?
Perché Manfredi ha deciso così.
Non si percepisce l’amore, che a sentire Abira dovrebbe essere travolgente, ma si sa che c’è perché ce lo dice Manfredi.
Tutto molto arido. Ed è troppo poco.
Io non mi accontento di una storia d’amore campata per aria, che esiste perché il burattinaio ha deciso così, soprattutto se questa storia d’amore è l’avvenimento che mette in moto il romanzo.
Almeno all’inizio, poteva e doveva essere sviluppata meglio. Quasi per esigenze di trama.
Anche il finale è forzatissimo e assolutamente campato per aria.
Una nuova storia d’amore sboccia così all’improvviso fra Abira e quello stesso Menon che davamo per morto da almeno mezzo libro.
Come si è salvato? Come ha trovato Abira?
Sono tutte domande cui Manfredi non si degna di darci risposta creando così un buco nella trama grande quanto una voragine.
Però devo ammettere una cosa e cioè che almeno la storia d’amore fra Abira e Menon ha una qualche base: almeno qualche volta si sono parlati!
Ma diciamo che si può accettare anche uno stile narrativo spregevole.
Gli scrittori incapaci esistono, è risaputo e non si scandalizza più nessuno.
Ma accettare gli aborti grammaticali che quest’uomo è capace di partorire, questo sì che impossibile!
Soprattutto tenendo conto che il signor Manfredi è uno “scrittore” (non vorrei dargli questo titolo, ma a quanto pare per esserlo basta pubblicare un qualsiasi libro orribile) e un professore universitario.
Come si può pretendere che questo povero paese non sprofondi nei più oscuri abissi dell’ignoranza se le stesse persone che in teoria dovrebbero essere le più istruite (appunto i professori universitari) sono incapaci di scrivere in un italiano corretto?
Manfredi in particolare litiga con il periodo ipotetico e con la concordanza soggetto-predicato.
Ecco per esempio una frase che si legge ne “L’armata perduta”:

“Se resisteva Ciro lo avrebbe travolto.”

Ora, due sono le possibili interpretazioni: o è un periodo ipotetico della realtà (e in tal caso il verbo dell’apodosi andrebbe all’indicativo, mentre Manfredi l’ha messo al condizionale) o è un periodo ipotetico della possibilità (e in tal caso il verbo della protasi andrebbe al congiuntivo, mentre Manfredi l’ha messo all’indicativo).
Quindi le fresi corrette sarebbero:
-PI della realtà: Se resisteva Ciro lo travolgeva (un po’ orribile da sentire)
-PI della possibilità: Se avesse resistito Ciro lo avrebbe travolto
Insomma, comunque la si voglia girare, un pezzo è sempre sbagliato.
Ma Manfredi riesce a fare ancora di peggio.
La prima cosa che si insegna ai bambini alle elementari è che il predicato concorda con il suo soggetto in numero ed eventualmente anche in genere.
Evidentemente questa cosa Manfredi ancora non l’ha capita, perché scrive frasi tipo:
“Trascorsero una quindicina di giorni”.
Il soggetto è “quindicina” ed è singolare, ma quella capra ha preferito concordare il verbo con il complemento di specificazione!
Una persona umana avrebbe scritto Trascorse una quindicina di giorni.
Oppure:
“C’era vegetazione, erba, fiori e piante”.
Visto che tutti gli elementi nominati fanno parte del soggetto, questo è plurale e quindi il verbo andrebbe al plurale C’erano vegetazione, erba, fiori e piante.
O ancora:
“Arieo e il suo esercito, che doveva essere il nostro alleato, si era unito a Tissaferne”.
Il soggetto è “Arieo e il suo esercito” quindi la frase dovrebbe andare tutta al plurale Arieo e il suo esercito, che dovevano essere i nostri alleati, si erano uniti a Tissaferne”.
Cosa assurde a cui non riuscirei a credere se non le avessi lette io stessa.
Manfredi è peggio di Moccia! Almeno Moccia i singolari e plurali li indovina e non viene osannato a destra e a manca come questo tizio!
Quindi, per concludere, libro orribile scritto da un cretino.
E se mai mi capiterà di rincontrare costui (per fortuna quando sono andata a vedere una sua conferenza non avevo ancora letto nulla di suo) sarò lietissima di tirargli un pugno in faccia.

giovedì 25 luglio 2013


Fratelli d’Italia
(da Lulù)

Ieri ho fatto un piccolo sondaggio fra amici e parenti.
Le domande erano semplicissime: Hai mai letto o ascoltato la versione integrale dell’Inno di Mameli? (3 sì, 5 no); Hai mai letto come è stato musicato? (2 sì, 6 no); Sai come e perché è morto Goffredo Mameli e a che età? (8 no).
La considerazione naturale che si può trarre da quest’esperienza è che gli abissi dell’ignoranza stanno per inghiottire anche il nostro bel (bello, ma che dico? Bellissimo) inno, forse se non è stato ancora completamente dimenticato è solo perché viene cantato prima di ogni partita di calcio. Questa trascuratezza si può spiegare forse con il fatto che ultimamente i sentimenti patriottici non sono esattamente esaltati (si tende più a biasimarla, questa nostra povera Italia, che ad amarla) perché tutti, più o meno, sono stufi e schifati dalla politica e dal malgoverno, ma qui mi si permetta di aprire una parentesi, che non ho la minima intenzione di approfondire,: ogni popolo ha il governo che vuole e che si merita. Se il governo italiano è formato da criminali-truffatori che pensano solamente a sistemarsi i fatti propri e a riempire le proprie tasche, è perché lo stesso popolo italiano è tendenzialmente truffaldino e clientelare.
Comunque è veramente un peccato che a pagare il conto di questa situazione ingrata sia un pezzo “vivente” di uno dei periodi più splendidi della nostra storia, quindi ho deciso di andare un po’ alla riscoperta di questo nostro Canto degli italiani.


Per chi è completamente digiuno di storia
Il Canto degli Italiani è stato scritto, musicato e cantato per la prima volta a Genova nel 1847, un anno prima dell’inizio della prima guerra di Indipendenza.  
Ridotta all’osso, la situazione era questa: dopo la caduta di Napoleone e la conseguente Restaurazione, l’Italia era divisa in sette regni controllati dall’Austria direttamente (alcuni regni erano in mano ai rami cadetti della famiglia degli Asburgo allora regnante nell’impero d’Austria) o indirettamente (attraverso trattati).
In poche parole l’Italia era sotto il dominio austriaco. Se questa cosa aveva inizialmente interessato solamente i colti pensatori liberali che sospiravano per gli ideali della vicina Rivoluzione francese, a un certo punto (proprio nel 1848) toccò anche il popolo, perché al malcontento per la situazione politica si aggiunse il malcontento per la carestia.
Quindi nel 1848 iniziò il Risorgimento, periodo che comprende tre guerre per l’Indipendenza e la spedizione dei Mille di Garibaldi e che si concluderà solamente nel 1861 con la proclamazione del Regno di Italia.
Se qualcuno vuole approfondire il periodo storico, lo rimando alle mani sapienti e fin troppo esaurienti di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Risorgimento
 Goffredo Mameli, nato a Genova nel 1827, era un giovane patriota seguace di Mazzini. Nel 1847, a soli vent’anni, scrisse il testo del suo famoso inno e partecipò alle manifestazioni genovesi per le riforme.
Nel marzo del ’48, con trecento volontari, partecipò alle Cinque giornate di Milano, quindi, tornato a Genova, collaborò con Garibaldi, per poi raggiungere Roma dove, nel 1849, era stata proclamata la Repubblica.  Mentre combatteva per difendere Roma assediata dai francesi, venne ferito alla gamba sinistra. Nonostante le cure, la gamba andò in cancrena e fu mutilata; il giovane Goffredo morì per infezione subito dopo l’intervento, a soli ventidue anni.
Questo è il ragazzo che ci ha lasciato l’inno che stiamo dimenticando.

Ed è arrivato il momento di lasciar spazio a lui, al nostro Canto:

Fratelli d'Italia,
L'Italia s'è desta;
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò,

Noi fummo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam Popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò,

Uniamoci, amiamoci;
L'unione e l'amore
Rivelano ai popoli
Le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio:
Uniti con Dio,
Chi vincer ci può?
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò,

Dall'Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core e la mano;
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò,

Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.

Delle ultime strofe bisogna spiegare qualcosa a livello storico, altrimenti si rischia di perdere parte dell’effetto dell’inno.
Nella battaglia di Legnano (rigo 35), combattuta nel 1176, la Lega Lombarda (no, non è quella di Bossi) sconfisse Barbarossa; Francesco Ferruccio (36) era un cittadino che nel 1530 partecipò alla resistenza di Firenze durante l’assedio di Carlo V; Balilla (39) era il soprannome di Giambattista Perasso, ragazzino che partecipò alla rivolta di Genova contro gli austriaci nel 1746; i Vespri (41) sono le campane che nel 1282 suonarono per chiamare i palermitani a combattere contro i francesi di Carlo d’Angiò.
Nei righi 50-51 si fa riferimento alla spartizione della Polonia da parte di Austria e Russia (Cosacco).
L’ultima strofa fu inizialmente censurata proprio perché Mameli sottolineava il declino dell’Austria le cui forze erano rose dai popoli oppressi (appunto quello italiano e quello polacco) che si ribellavano.
Personalmente, sarà che sono un’idealista romantica che sente, nonostante tutto, di dovere qualcosa al proprio paese e che ammira sempre, a prescindere, chi lotta per un qualsiasi ideale e soprattutto per la propria libertà, ogni volta che leggo o sento questa canzone mi commuovo e alla fine arrivo sempre con la pelle d’oca.
Non vale la pena di salvarlo dall’oblio?

Ora, per concludere, vorrei lasciare la parola a Carlo Alberto Barrili, un patriota amico di Mameli che più tardi scrisse la sua biografia. In questo pezzo Michele Novaro stesso, colui che ha musicato l’inno, racconta la sua reazione quando ha letto per la prima volta Fratelli d’Italia:
Colà, in una sera di mezzo settembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scrittore di buon nome, si faceva musica e politica insieme. Infatti, per mandarle d'accordo, si leggevano al pianoforte parecchi inni sbocciati appunto in quell'anno per ogni terra d'Italia, da quello del Meucci, di Roma, musicato dal Magazzari - Del nuovo anno già l'alba primiera - al recentissimo del piemontese Bertoldi - Coll'azzurra coccarda sul petto - musicata dal Rossi.
In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l'egregio pittore che tutti i miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: - To' gli disse; te lo manda Goffredo. - Il Novaro apre il foglietto, legge, si commuove. Gli chiedono tutti cos'è; gli fan ressa d'attorno. - Una cosa stupenda! - esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. - Io sentii - mi diceva il Maestro nell'aprile del '75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli - io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo.
Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all'inno, mettendo giù frasi melodiche, l'un sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte.
Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d'un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia.

Questa quindi è la storia del Canto degli Italiani.
Se volete leggere anche come il nostro inno viene raccontato “ufficialmente”, questo è il link del Quirinale, ma non penso che troverete grosse differenze: http://www.quirinale.it/qrnw/statico/simboli/inno/inno.htm
venerdì 28 giugno 2013
Coco Chanel
(da Rory)

Gabrielle Bonheur Chanel è nata a Saumur nel 19 agosto del 1883, è stata una stilista francese molto famosa, ed ha fondato la casa di moda Chanel.
I suoi genitori erano Henri-Albert Chanel e Jeanne DeVolle, la bambina nacque quando i genitori ancora non erano sposati, così come sua sorella Julie. Il padre era un venditore ambulante e la famiglia si trasferì a Issoire, dove vennero concepiti altri tre figli,in seguito si trasferirono a Brive-la-Gaillarde dove la madre morì in seguito ad una febbre ed a un attacco di asma. Dopo la morte di Jeanne, il padre abbandonò i figli a sua madre che però non potè occuparsi dei bambini e quindi mandò i maschietti a lavorare in un'azienda agricola, mentre le tre sorelline vennero mandate dalle suore alla congregazione del Sacro Cuore. 
Raggiunta l'età in cui non poteva più restare dalle suore, Gabrielle venne mandata a una scuola di apprendimento delle arti domestiche di Notre Dame, e quando compì diciotto anni iniziò a lavorare come commessa al Maison Grampayre, ma la svolta nella sua vita fu quando conobbe il suo primo amante , Etienne De Balsan. La loro storia durò sei anni e lui fu il suo primo finanziatore, si trasferì al castello Royallieu insieme ad Etienne. Lì imparò ad andare a cavallo, grazie alla passione del suo amante e fu proprio questo che in seguito le ispirò i pantaloni da cavallerizza. Iniziò a creare dei cappelli e sebbene Etienne non capisse il desiderio creativo di Chanel le lasciò fare quello che voleva, assecondandola.
Proprio nella residenza del suo primo amante Coco incontrò l'amore della sua vita, Boy Capel. Boy era un industriale di Newcastle, e a differenza di Etienne lui incoraggiò il lavoro di Chanel e successivamente lo finanziò anche. Purtroppo non si sposarono mai, sia per il fatto che appartenevano a due classi sociali diverse e sia perchè tra la scelta di avere il suo grande amore o il lavoro, Chanel scelse il lavoro.
Nel 1912, quando ormai erano due anni che aveva avviato la sua vendita di cappellini, Coco scelse di dedicarsi anche alla vendita di capi vestiari. Un anno dopo aprì un suo negozio nella località di Deauville e decollò con i suoi capi, soprattutto negli anni della Guerra perchè le famiglie più facoltose trascorrevano il periodo estivo proprio in quel paese, così le signore acquistavano i vestiti e i cappellini più carini proprio al negozio di Coco Chanel.
In quegli anni portò il jersey nei suoi vestiti e per questo è tutt'oggi ricordata visto che in quel periodo il jersey era usato solamente nella biancheria. Nel 1917 riuscì finalmente ad ampliare la sua attività a Parigi e a Biarritz,così da avere cinque laboratori e trecento lavoranti.
Negli anni venti Chanel lanciò la moda di portare i capelli corti, così presto tutte iniziarono a tagliarsi i capelli, un altro suo grande successo di quegli anni fu il profumo Chanel n°5 che diventò popolare perchè era una fragranza del tutto nuova, e il profumo fu chiamato così perchè si diceva che il cinque fosse il numero preferito di Coco.
Negli anni trenta iniziò a dedicarsi ai gioielli, ma subiva di una forte depressione così si trasferì ad Hollywood per un ingaggio come costumista. Ritornò a Parigi due anni dopo e da lì iniziò a vendere gioielli veri, iniziò anche una relazione con Paul Iribe, la quale durò due anni.
Gabrielle non fu solo una grandissima stilista ma anche una brava costumista, però negli anni quaranta quando iniziò la seconda guerra mondiale fu costretta a chiudere e riaprì soltanto a guerra finita. Il suo ritorno fu segnato da un vestito da ballo realizzato con una semplice tenda, il quale suscitò molto scalpore..ormai erano gli ultimi anni dei suoi successi.
Chanel morì il 10 gennaio 1971 all'Hotel Ritz quando aveva ormai 87 anni.
lunedì 24 giugno 2013


La pubertà
(da Lulù)

La pubertà è notoriamente un momento delicato della vita di una persona: finisce l’infanzia e si entra nell’età adulta, con tutto ciò che questo passaggio implica.
Il corpo cresce e per la prima volta esiste, ne sentiamo il peso e ne subiamo i fastidi (cosa che prima, da bambini, non succedeva, il nostro corpo non aveva una sorta di vita propria) e da questo cambiamento tutto nostro deriva un cambiamento del mondo, che improvvisamente non sembra più un luogo tanto confortevole e sicuro.
Mi è piaciuto come questo momento delicato è stato raccontato da Elsa Morante nel libro Aracoeli. Prima di riportare il pezzo in questione, vi dico un po’ di che parla il libro, se no ci si capisce poco: Aracoeli è la madre del protagonista (che sinceramente ancora non ho capito come si chiama), uomo ormai di mezza età disadattato, insoddisfatto e infelice. A un certo punto, dopo svariati anni dalla morte di Aracoeli, quest’uomo decide di intraprendere un viaggio nella terra natia della madre (Aracoeli è andalusa) e una volta arrivato in Spagna accusa la madre di essere stata egoista perché l’ha messo al mondo (cosa che l’ha condannato a una vita infelice e lo costringerà a morire) per il suo desiderio di avere una bambola.
Bambola che nel periodo infantile consiste fondamentalmente nel giocattolo propriamente detto, ma che nell’adolescenza si incarna nel bambino, prima delle altre e poi proprio. Insomma questo desiderio di avere una bambola non è altro che l’istinto materno che però definito così sembra qualcosa di frivolo e superficiale.
Il momento di transizione fra il desiderio del giocattolo e quello del bambino è proprio la pubertà ed è raccontato così:

Intanto le tue mammelle, che agli inizi erano state non più grosse di due lenticchie, erano cresciute fino alla misura, circa, di due manzane, e durante la notte, con certe piccole fitte e un senso di tumefazione dolorosa, ti andavano avvertendo che crescevano ancora. Sotto le ascelle e fra le cosce ti andavano spuntando dei riccetti lanosi e caldi. E una notte, dormendo vicino a tua madre, sognasti che dalla finestra entrava un incendio in forma di toro dritto in piedi, che agitava le zampe contro di te. A tale sogno, con un grido balzasti su sveglia, e piangesti al trovarti insanguinata, e il lenzuolo macchiato di sangue, certo per una cornata di quel toro. Però tua madre, ridestata dai tuoi singulti, fu pronta a spiegarti sottovoce che questo del sangue era un segno naturale mandato dalla Virgen a tutte le giovani per avvertirle quando erano cresciute. Era un sangue di sacrificio che ti colava dal cuore in ricordo delle piaghe di Maria. Dunque, al primo domingo, tu e lei assieme sareste andate fino al Santuario di Tabernas a salutare Nuestra Senora de las Angustias, ti disse tua madre. E per colazione, alla mattina, ti dette da bere un uovo.
Quanti anni avevi, allora? Dodici, tredici.
Non ti era passata la voglia della bambola, anzi ti fermentava nella carne. E forse proprio quella era l’urgenza che faceva lievitare le tue sise e spuntare i riccetti sul tuo nido di sangue.

Aracoeli è un romanzo molto particolare. Ci vuole un po’ per entrarci dentro e anche quando l’hai fatto ti lascia un po’ basita. In alcuni momenti non riesco a entrarci in sintonia, in altri (come il pezzo qui sopra) lo sento proprio che mi si scioglie sulla lingua.  
C’è qualcosa, forse è anche solo una questione di ritmo, di triste e sconsolato, ma nello stesso momento di rassegnato e fatalista, che a momenti mi irrita e a momenti mi conquista.
In ogni caso la mia opinione è confermata: la Morante è una grande scrittrice.
Forse è la mia preferita.

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Siamo due cuginette, Luisa e Rosa, che vivendo lontane hanno deciso di scrivere un blog insieme. A Luisa piace leggere, guardare gli anime e studiare (che secchiona!!!); a Rosa piace leggere, vedere film e scrivere. Speriamo tanto di riuscire a intrattenervi e ad interessarvi e che questo blog vi piaccia!
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