martedì 27 novembre 2012


Peter Pan nell’Isola che non c’è
(da Lulù)
Autore: James Matthew Barrie
Titolo: Peter Pan nell’Isola che non c’è
Casa editrice: Giunti
Pagine: 220
Prezzo: €16,50
Quarta di copertina:
“Tutti i bambini crescono, tutti meno uno. Tutti i bambini sanno molto presto che cresceranno; Wendy lo seppe in questo modo. Un giorno (aveva due anni) stava giocando in un giardino, colse un fiore e trotterellò con quello dalla mamma. Immagino che avesse un’aria molto carina perché la signora Darling si mise una mano sul cuore ed esclamò: -Oh, perché non puoi restare così per sempre! Fu tutto quello che si dissero sull’argomento; ma da allora Wendy seppe che doveva crescere; tutti lo sanno, a due anni.
Due è il principio della fine.”

La storia di Peter Pan, bene o male, la conosciamo tutti, grazie ai vari film (il mio preferito è quello del 2003, anche se snatura molto il romanzo, come del resto fanno tutti i film) e al cartone della Disney (hanno prodotto perfino un anime su Peter Pan).
Grosso modo questa è la storia: Peter Pan passa molto tempo ad ascoltare la signora Darling che racconta fiabe della buona notte ai suoi bambini e una notte, intrufolandosi nella camera di Wendy, perde la sua ombra. Piangendo sveglia Wendy che gli ricuce addosso l’ombra e Peter Pan allora insegna a volare a lei e ai suoi due fratellini per portarla con sé, in modo che sia la mamma dei bambini smarriti e racconti loro le fiabe della buonanotte. Dopo varie avventure (fra cui la sconfitta del temibile Capitano Uncino) Wendy torna a casa con i bambini smarriti e cresce.
Quel che quasi nessuno sa, è che la storia originale non è così idilliaca.
Nella fantastica avventura sull’Isola che non c’è ci sono molte zone d’ombra.
Già la natura dell’Isola che non c’è è ambigua. Da una parte infatti si presenta come un locus amoenus che i bambini sognano di notte, dove possono giocare felici e vivere tante avventure; dall’altra però si presenta come un luogo crudele, dove ci sono guerre, si ammazza e si muore.
Volendo proprio esagerare si può anche pensare che l’Isola che non c’è sia l’Inferno, o comunque un aldilà.
Non è questo che vi viene in mente, leggendo questo pezzo?
In principio la signora Darling non capì, ma poi ripensando a quando era bambina lei, le venne in mente un certo Peter Pan che si diceva vivesse con le fate. Si raccontavano di lui strane storie, come, per esempio, che quando i bambini morivano, lui faceva un po’ di strada con loro perché non avessero paura.
E l’incontro tra Peter e Wendy si potrebbe anche colorare di risvolti sessuali al limite dello stupro.
Parlando con la mamma Wendy spiegò che Peter, a quanto credeva, veniva qualche volta nella sua camera, sedeva ai piedi del letto e suonava lo zufolo per lei. Disgraziatamente non le riusciva mai di svegliarsi, così non sapeva perché lo sapesse ma lo sapeva.Non vi viene in mente la storia della pastorella che viene stuprata per le montagne al suono dei flauti di canne? Vedendola in questo modo Wendy che sull’Isola che non c’è fa da mamma ai bambini smarriti prende tutta un’altra veste.
La donna, sedotta dall’uomo, che abbandona la casa dei genitori per creare un’altra famiglia con colui che l’ha conquistata. Nel caso specifico si potrebbe dire che Peter Pan quasi rapisce Wendy, anche se sarebbe ingiusto nei confronti di Peter: Wendy decide da sola di imparare a volare.
Nella parte centrale gli elementi inquietanti prendono una natura meno minacciosa, ma non mancano di certo.
Vi ricordate Trilli, la deliziosa fatina che vola dappertutto con un suono di campanellini? Innamorata di Peter (incredibile come tutti i personaggi femminili, perfino la signora Darling, diano segni di amore per Peter Pan, il che rappresenta un rafforzamento dell’idea di Peter come seduttore), gelosissima di Wendy, quasi la fa uccidere. Wendy si salva solamente perché la freccia che Zufolo, pensando di obbedire agli ordini di Peter, le tira su istigazione di Trilli colpisce il bottone che Peter le ha regalato (il “bacio”) e che lei aveva appeso alla catenella.
E che dire di Peter che si vanta fino all’inverosimile manipolando gli eventi in una maniera incredibile? Cosa dire di questo personaggio che quando sta per morire affogato urla “Morire! Sarebbe una grande, una straordinaria avventura!”?
Poi ci sono i fratelli Darling, Wendy Gianni e Michele che hanno dimenticato quasi completamente la propria casa e che hanno lasciato la famiglia senza preoccuparsi minimamente del dolore che hanno dato ai loro cari.
Il tema dell’amnesia è una cosa che si sviluppa piano piano in questo libro: nasce nel quarto capitolo, durante il volo verso l’Isola che non c’è, quando Peter, allontanandosi varie volte dal gruppo, si dimentica completamente di Wendy e dei suoi fratelli; si sviluppa nella parte centrale quando Wendy, Gianni e Michele dimenticano la loro casa; si completa nel finale quando Peter dimentica Wendy, la sua mamma e mogliettina.
Quando Wendy e gli altri decidono di tornare a casa vengono rapiti da Uncino che si rivela una figura molto ma molto interessante, lontanissima dal banale cattivo che ci hanno presentato. Ossessionato dal desiderio di essere distinto e dal terrore della morte (incarnata nel coccodrillo che fa tic tac avendo ingoiato un orologio) è una figura molto infelice, quasi patetica.
È dopo aver salvato Wendy da Uncino che si rivela la complessità della figura di Peter Pan. Wendy infatti si aspettava di trovare sempre la finestra aperta per lei e la mamma davvero lascia sempre la finestra aperta. Peter però vola a casa di Wendy e chiude la finestra, così che Wendy, pensando che la mamma l’abbia dimenticata, ritorni sull’Isola che non c’è con lui. Questo atto dimostra che Peter vuole bene a Wendy, ma ti chiedi fino a che punto sia affetto e quanto invece sia capriccio. Non possiamo però accusare Peter di essere egoista perché subito dopo, sentendo la signora Darling piangere, riapre la finestra.
Peter Pan è un personaggio molto strano. Tutta questa roba viene infatti vanificata alla fine, quando Peter dimentica tutto (parlando con Wendy non ricorda chi sia Trilli o Capitano Uncino), rapendo la figlia e poi la nipote di Wendy come, a suo tempo, aveva fatto con Wendy stessa (quindi Wendy non era affatto speciale per lui!).
Il libro si chiude così “Quando Margaret (la nipote di Wendy) sarà grande avrà una bimba, che sarà a sua volta la mamma di Peter; e così di seguito, finché i bambini saranno gai, innocenti e senza cuore”  lasciando un retrogusto amaro molto forte.
 Peter Pan nell’Isola che non c’è, secondo me, più che un romanzo di avventure incentrato su Peter è un romanzo di formazione incentrato su Wendy, che dopo la visita sull’Isola che non c’è (rito di iniziazione alla vita adulta?) cresce e diventa un’adulta come tutte le altre.

Peter Pan nell’Isola che non c’è è un libro bellissimo. Non c’è un singolo momento di noia, è un continuo di avventure e di risate. Mi sarebbe piaciuto averlo letto da piccola, così che l’avrei amato alla follia e l’avrei imparato a memoria, per poi rileggerlo per l’ennesima volta e scoprirlo completamente diverso da quel che ricordavo. Perché Peter Pan è un libro adatto davvero a tutti e degno di essere letto.
La leggerezza della storia viene sfumata da tanti piccoli elementi e così vi ritrovate fra le mani un romanzo ricco di chiaroscuri. Davvero molto, molto bello.

Un appunto sull'edizione Giunti e sulla collana Gemini. Riporto un pezzettino della copertina:
Abbiamo pensato, perciò, di affidare la traduzione di ogni libro a uno scrittore contemporaneo di grande fama ed esperienza, in modo da potere offrire una collana di libri fedelissimi ai testi originali ma scritti in un italiano sciolto, vivo e moderno, adatto a seguire i moti più espressivi della narrazione, che, a volte, ha suggerito tagli sapienti per una maggiore funzionalità del testo.Sì avete fatto benissimo, l'idea è buona. I traduttori giocano un ruolo molto importante nella qualità di un libro (quanti capolavori in lingua originale rovinati da una scadente traduzione!), ma cosa diavolo significa TAGLI SAPIENTI?
Potete aver soppresso un rigo, una pagina, un capitolo o mezzo libro. Chi ve la dà tutta questa libertà? Almeno segnalate cosa avete tagliato, così che io possa avere un minimo di consapevolezza. Per quel che ne so, potete avermi dato anche un libro censurato a furia di tagli.
Il prezzo del libro è un po’ altino (io sinceramente pensavo di pagare al massimo una decina d’euro per un libro di 200 pagine scritto da uno morto e sepolto da tempo) però l’edizione è proprio carina: la sovraccoperta è bellissima (quanto mi è piaciuta la differenza fra il corpo di Peter –che guarda Wendy- e della sua ombra –che quasi tocca il mento di Wendy con la mano-) e anche la copertina è bella: sembra fatta quasi di tessuto blu con il titolo al centro in argento. Mi piace un sacco passarci sopra la mano per sentirne la trama. Anche i disegni sono carini e ci son alcune pagine a colori belline (che però potevano essere più frequenti).
  
 
venerdì 23 novembre 2012

Il sistema onomastico romano e le donne “senza nome”
(da Lulù)

Un romano aveva in genere tre nomi, cui poteva aggiungersene un quarto.
Il praenomen era il nome in prima posizione che veniva dato al bambino alla nascita e veniva poi confermato quando questi prendeva la toga virile (intorno ai 15 anni) ed è l’equivalente del nostro nome di battesimo; il nomen era il nome in seconda posizione che indicava la gens di appartenenza (la gens era un gruppo famigliare gentilizio formata da varie familiae); il cognomen in terza posizione indicava la familia di appartenenza. Spesso si aggiungeva un secondo cognomen che era essenzialmente un soprannome che richiamava qualità specifiche di un individuo e proprio da questo cognomen derivano i nostri vari cognomi.
Quindi riassumiamo tutta questa roba in un esempio:
Publio (praenomen) Cornelio (nomen) Scipione (cognomen indicante la familia) Africano (cognomen che fa riferimento a una caratteristica della persona, in questo caso al luogo delle sue imprese belliche).

Le donne non avevano tre o addirittura quattro nomi, ma ne avevano solamente due. Venivano indicate con il nomen e il primo cognomen, insomma non avevano un vero e proprio nome personale. I nomi delle donne erano nomi gentilizi al femminile (ad esempio la figlia di Marco Tullio Cicerone si chiamava Tullia) e per distinguere le varie donne appartenenti allo stesso gruppo famigliare si usava aggiungere al nome Prima, Seconda, Terza e così via o, se le donne in questione erano due, Maior e Minor (maggiore e minore).
Ma perché i romani erano così riluttanti a dare un nome proprio alle donne? Nell’antichità classica si riteneva che delle donne perbene si dovesse parlare poco (“Grande è la gloria della donna della cui virtù si parla pochissimo, per lodarla o biasimarla tra i maschi” aveva detto Pericle): i romani portarono questa idea fino alle massime conseguenze richiedendo addirittura che il nome delle loro donne non venisse mai pronunciato.
Le donne che venivano chiamate con un soprannome erano prostitute (Rutilia “rossa di capelli”, Burrula “burrosa”, Murrula “che profuma di mirra”).
Non avendo un proprio nome inoltre le donne perdevano ogni parvenza di personalità: per i romani la donna non doveva essere una persona, ma una parte passiva e anonima di un gruppo famigliare. E quale modo migliore di far capire questa cosa che chiamando le donne solamente con il nome della famiglia?

Bona Dea, divinità venerata dalle matrone, di cui si diceva che solamente il marito seppe il nome prima della sua morte.

giovedì 22 novembre 2012
Il giardino degli incontri segreti
(da Rory)

Titolo:Il giardino degli incontri segreti
Autrice:Lucinda Riley
Prezzo:9,90 euro
Pagine:624

Trama:

Da bambina Julia Forrester ha trascorso molte ore felici nell'incantevole tenuta di Wharton Park, dove suo nonno coltivava con passione le specie più rare ed esotiche di fiori. Quando un terribile incidente sconvolge la sua vita, Julia, ormai bella e affermata pianista, torna istintivamente nei luoghi della sua infanzia, nella speranza che la aiutino a capire che direzione prendere, come è avvenuto in passato. Da poco, la tenuta di Wharton Park è stata rilevata dall'affascinante e ribelle Kit Crawford, che durante i lavori di ristrutturazione ha trovato un diario datato 1940, forse appartenuto al nonno di Julia. E mentre con l'avanzare dell'inverno la tensione tra Julia e Kit cresce di ora in ora, Julia si rivolge alla nonna Elsie per scoprire quale verità si nasconda dietro quelle pagine annotate. Ed è così che un terribile segreto sepolto per anni viene alla luce, un segreto potente, che ha quasi distrutto Wharton Park e che è destinato a cambiare per sempre anche la vita di Julia.

Recensione:

Libro bello e interessante.Ti incuriosisce,la trama è molto bella e sviluppata bene anche se devo ammettere che non avevo capito (almeno all'inizio) cos'era successo.
Inizia parlando della vita di Julia e poi fa un collegamento al passato con il racconto di nonna Elsie. Una cosa veramente bella che sviluppa in modo meraviglioso la storia,facendo collegamenti e creando colpi di scena.Parlando onestamente ero più curiosa della storia che raccontava la nonna su Harry Crawford che della storia al presente.
Non è stato banale come molti libri che ci sono ora in commercio, non mette noia e non è scontato.
Una delle caratteristiche di questo libro è la descrizione degli ambienti in modo favoloso, sembra di essere lì in quel momento.
Insomma nelle sue 624 pagine non mette mai noia, ma del libro ho apprezzato molto di più la prima parte che il finale.
Beli libro che consiglio a tutti! 
domenica 18 novembre 2012


Il Principino Tricorno
(da Lulù)

C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un Principino Tricorno che era sempre tanto triste. La sua mamma, la gran regina delle Indie Nebbiose, era morta di parto, infilzata dal corno del bambino.
Il gran re delle Indie Nebbiose allora non volle più vedere il proprio figliolo e ordinò di chiuderlo nella torre più alta del castello. Il Principino Tricorno non conosceva nessuno, tranne la cameriera che gli portava da mangiare una volta al giorno, e sapeva quindi appena appena parlare. Non ci si può stupire se era tanto triste.
Un giorno il Principino Tricorno contemplava il paesaggio dalla finestra ed esclamò pieno di malinconia: “Bello il fiume, bello il prato, bello il cielo!” e piangeva tristemente.
Calata la sera, tutte le stelle del firmamento si strinsero ad ascoltare i lamenti del Principino Tricorno e soffrivano con lui.
La stella più giovane del cielo decise di scendere a consolare il Principino Tricorno e, assunte le fattezze di una bianca fanciulla dalle guance rosate, si sedette sul davanzale della sua finestra.
“Perché piangi?” gli chiese dolcemente.
“Bello il fiume, bello il prato, bello il cielo!” rispose piangendo il Principino Tricorno.
“Piangi perché non puoi uscire dalla torre e vedere queste cose?”
“Bello il fiume, bello il prato, bello il cielo! Bello il fiume, bello il prato, bello il cielo!”
“Non piangere più allora, da oggi verrò a trovarti per parlarti di queste cose.”
E così fece. Ogni notte scendeva e sedeva a parlare con il Principino Tricorno che così imparò tante cose.
“Ma perché il mio papà non mi vuole bene?” chiese una volta il Principino Tricorno alla stella.
“Perché è tanto triste anche lui.”
“Per colpa mia?”
“No. È triste perché la tua mamma è morta.”
“Per colpa mia?”
“È morta dandoti alla luce, ma non è colpa tua. Tante mamme muoiono partorendo.”
“Forse, se potessi uscire di qui, potrei compiere azioni eroiche. Forse così il mio papà mi vorrà bene.”
“Forse” rispose la stella tristemente perché lei sapeva che era il re a tener prigioniero suo figlio.
“Tu potresti farmi uscire da qui?”
“Io no. Forse Luna può farlo.”
“Come può la luna aiutarmi?”
“Non la luna, ma Luna. Luna è la regina del cielo e ha grandi poteri. È una bambina, eppur governa il cielo da quando è stato creato. Luna è la madre di tutte noi.”
“E secondo te vorrà aiutarmi?”
“Luna è una regina buona e giusta che legge nel cuore di tutte le creature viventi. Se tu hai un cuore puro sicuramente ti aiuterà.”
La stella quella sera lasciò il Principino Tricorno pieno di speranza.
Volò nel cielo notturno, attraversò i veli di polvere di stelle, circondata di luci e odori, avvolta da materie cosmiche e da gas stellari, su su fino al vuoto siderale.
Sospesa nel vuoto, con gli occhi chiusi, c’era la regina Luna.
La stella raccontò la storia del Principino Tricorno con tale veemenza da far sorridere la vecchia bambina.
“Poiché me lo stai chiedendo con tanto ardore, aiuterò il tuo Principino Tricorno. La prossima volta che in cielo splenderà la luna piena il Principino Tricorno fluttuerà fuori dalla sua torre. Ma quando saranno passati tre volte tre mesi dovrà tornare spontaneamente al castello, che abbia raggiunto il suo obbiettivo o no.”
La notte seguente, la stella raccontò al Principino Tricorno cosa la regina aveva deciso. Il Principino Tricorno era tutto emozionato e passò le due settimane che lo separavano dalla prossima luna piena a farsi raccontare dalla stella quante più storie di avventure possibili e a immaginarne altre da sé.

La prima notte di luna piena il Principino Tricorno attendeva con ansia vicino alla finestra, stringendo forte lo zainetto con dentro alcuni indispensabili strumenti per la sopravvivenza che la cameriera gli aveva procurato.
A mezza notte in punto sentì una nube di aria spessa sotto di sé. Abbassò lo sguardo e, oh!, si stava alzando! Con immensa dolcezza la nube lo portò non solo fuori dal castello, ma anche appena fuori dalla città. Lì si fermò.
Il Principino Tricorno sapeva di dover scendere, ma aveva paura. Non sapeva che sensazione si provava camminando su un prato e scese con molte esitazioni e solo quando la nube iniziò a diradarsi spontaneamente.
Il Principino Tricorno si guardò intorno in cerca della sua amica stella, ma non la trovò.
Il Principino Tricorno si sentiva molto smarrito, non sapeva dove andare e cosa fare, e la stella non era con lui.
Dopo un po’ di tempo che stava immobile decise di iniziare a camminare in una direzione qualsiasi sperando di arrivare da qualche parte. Stava camminando da pochi minuti quando sentì degli orribili lamenti provenire dai campi.
Girandosi vide un cinghiale possente e una lince scattante lottare ferocemente nei pressi di un candido animale macchiato di sangue sdraiato nell’erba. Il Principino Tricorno accese una torcia, perché gli animali temono il fuoco, e si portò vicino al candido animale che lanciava alti gridi di dolore al cielo scacciando il cinghiale e la lince con le fiamme.
Quando i due litiganti fuggirono il Principino Tricorno si inginocchiò accanto all’animale, un grande e possente cavallo  dal pelo bianco e cosparso di una strana polvere che si appiccicava alle dita rendendole vagamente luminose. Quando il cavallo scuoteva la lunga criniera la luce della luna illuminava un corno d’avorio vagamente simile a una spirale. L’unicorno sanguinava da una ferita al fianco e da una al collo. La ferita sul collo non era molto grave, ma il fianco dell’animale era scarlatto poiché sanguinava molto.
Il Principino Tricorno non sapeva cosa fare per aiutare il possente animale, pensava che tutto quello che avesse potuto fare sarebbe stato inutile, ma decise di tentare lo stesso. Con il suo mantello tenne premuta la ferita al fianco e diede da bere e da mangiare all’unicorno mentre gli parlava dolcemente per tranquillizzarlo.
Avrebbe voluto vegliarlo per tutta la notte, ma l’unicorno emanava un calore e un odore così buoni e rassicuranti che ben presto si addormentò.
Quando si svegliò era rannicchiato sul fianco dell’unicorno e sentiva il collo dell’animale sulle spalle. Si accorse che l’unicorno era ancora vivo dal suo respiro e si sentì molto contento e soddisfatto. Avvertendo che il Principino Tricorno era ormai sveglio, l’unicorno si alzò e nitrì scuotendo la criniera.
Il Principino Tricorno si accorse che le sue ferite erano guarite durante la notte.
L’unicorno si chinò davanti al Principino Tricorno e gli fece capire che doveva balzare sulla sua groppa.
Il Principino Tricorno montò e si lasciò guidare da lui.

L’unicorno lo portò in una piccola radura nel bosco e si fermò lì. Il Principino Tricorno smontò e andò ad esplorare i dintorni.
Poco lontano dalla radura si ergeva un superbo castello di cristallo dalle guglie dorate. Il Principino Tricorno si avvicinò pieno di timore all’immenso portone e avvicinò la mano per bussare. Non fece in tempo neppure a sfiorare il cristallo che la porta si aprì.
Dentro il palazzo era molto buio, si vedeva solamente una luce in lontananza, in fondo al corridoio. Il Principino Tricorno si diresse verso la luce e sbucò in una stanza immensa dove il cristallo e l’oro creavano un abbagliante gioco di luci.
In fondo alla stanza, circondata da ricchezze di ogni tipo, assisa su un trono riccamente decorato, c’era una superba regina dai lunghi capelli dorati.
Una pelliccia avvolgeva il suo corpo regale e nel suo viso luccicava uno sguardo freddo e tagliente quanto il suo palazzo.
“È permesso? Si può?” chiese il Principino Tricorno.
“Come sei giunto qui?” la voce della regina aveva un suono metallico.
“Mi ci ha portato l’unicorno.”
“Allora puoi entrare”
Il Principino Tricorno si avvicinò alla regina, pieno di timore e incerto sul da farsi.
“Cosa cerchi qui?”
“Voglio compiere delle azioni eroiche così il mio papà sarà contento di me e mi vorrà bene.”
“Oh capisco. E se ti dicessi che posso aiutarti?”
“Ne sarei molto felice, signora.”
“Allora ascoltami bene: a circa tre giorni di viaggio da qui verso Nord c’è il reame di un re vecchio e malato che non riesce più a mantenere l’ordine nei suoi domini. Bande di briganti mettono a soqquadro la zona, ma il problema più grande del re è un drago che si è installato sui monti vicini al regno. Il drago scende dai monti una volta al mese distruggendo tutto ciò che trova sul suo cammino. Il re è disperato. Se tu andassi lì e uccidessi il drago otterresti la fama che cerchi.”
“Ma io non so uccidere draghi, signora.”
“Di questo non devi preoccuparti: ho qui una splendida arma che rende invincibile chi la usa. Combatti con questa e vincerai sicuramente” disse la regina porgendo una robusta lancia al Principino Tricorno.
“Grazie mille, signora. Farò come dici.”
“Di nulla, caro” rispose la regina dolcemente mentre guardava l’ingenuo Principino Tricorno uscire dal suo castello.

Il Principino Tricorno, lancia in mano, tornò alla radura, ma l’unicorno era sparito. Allora decise di camminare nella direzione che la regina gli aveva indicato.
Capì di essere arrivato quando intorno a sé vide i segni della distruzione che il drago compiva: case distrutte e campi bruciati o abbandonati.
Tenendo sempre stretta la lancia si diresse al castello del re dove venne accolto molto bene. Quando disse di voler combattere contro il drago il re fu molto contento.
“Sono vecchio e senza figli” disse al Principino Tricorno “se riuscirai nell’impresa ti nominerò mio erede.”
Il drago sarebbe sceso dalle montagne solamente dopo tre settimane e il Principe Tricorno utilizzò questo tempo per conquistarsi le simpatie del re e crearsi una solida posizione a corte.
Si rivelò talmente esperto che quando venne il momento di affrontare il drago il vecchio re piangeva come se contro quel mostro stesse andando a combattere il sangue del suo sangue, la carne della sua carne, le ossa delle sue ossa.
Il Principe Tricorno cavalcò impavido contro il drago e lo uccise con la lancia magica.
Il re piangeva di consolazione, ora.
Organizzò un grande banchetto per celebrare la scomparsa dell’abominevole mostro e nominò il Principe Tricorno suo erede e successore al trono.
Il Principe Tricorno era molto impegnato con gli affari di stato: doveva ricevere un’istruzione e addestrarsi nell’uso delle armi, doveva domare i briganti e rilanciare l’economia del regno. In questo modo passarono molto velocemente sette dei nove mesi concessi al Principe Tricorno.

Un giorno il Principe Tricorno si stava riposando dalla caccia seduto su un prato vicino a un lago quando nell’acqua apparve l’immagine della superba regina del palazzo di cristallo.
“Principe Tricorno, ti rammenti di me?” disse l’apparizione con la stessa voce metallica della regina.
“Certamente, signora” rispose il Principe Tricorno.
“So che tu entro il prossimo mese devi recarti alla corte di tuo padre.”
“È così, infatti.”
“Ho bisogno che tu mi faccia un favore. A corte c’è una fanciulla, una stella, di cui mi serve il cuore per certi miei incantesimi. Devi portarmi il suo cuore.”
“Sarà fatto, signora. Chi è questa fanciulla?”
“Eccola”. L’immagine della regina tremolò sullo specchio d’acqua, soppiantata da quella di una bianca fanciulla dalle guance rosate.
“Che!” urlò il Principe Tricorno “È lei la fanciulla cui devo strappare il cuore? La stella amica della mia infanzia? No, no, mi rifiuto! A tutte potrei strappare il cuore, ma non a lei.”
“E invece lo farai” disse fredda la regina “Lo farai per il tuo trono. Sei salito lassù con la mia lancia: io e solamente io ti ho dato il trono e io posso togliertelo. Lo farai. Mi porterai il cuore della stella.” Detto questo sparì, lasciando il Principe Tricorno pieno di tristezza.
Non vedeva la sua amica stella dalla notte precedente alla sua fuga dal castello, erano ormai passati otto lunghi mesi e lui era cambiato completamente.
Per un momento si sentì tanto simile al Principino Tricorno che la stella aveva aiutato. Ma fu solo un momento, poi tornò ad essere il Principe Tricorno.

Il mese seguente il Principe Tricorno andò alla corte del padre dove venne ricevuto con tutti gli onori confacenti al suo rango. Durante il giro del castello intravide la sua amica stella e la salutò. Lei si rivelò molto contenta perché era stata riconosciuta e arrossì di piacere rispondendo al saluto.
Il Principe Tricorno avrebbe voluto fermarsi a parlarle, ma decise che la presenza del re avrebbe limitato il suo campo d’azione e proseguì.
Di pomeriggio andò a cercarla e la trovò alle porte del gineceo con un mazzo di fiori in mano.
“Posso chiedervi di accompagnarmi a fare una passeggiata per questi giardini?” chiese con un sorriso indicando il prato fuori dalla finestra.
“Il re non vi ha accompagnato?” rispose la stella.
“Sì, mi ha accompagnato, ma vorrei una compagnia più gradevole.”
“Aspettate un attimo, porto questi fiori alla regina e torno.”
La stella entrò nel gineceo e ricomparve dopo qualche minuto. “Vogliamo andare? Dovete raccontarmi tutto quel che è successo da quando vi ho lasciato come un bimbetto malinconico cui davo del tu.”
“Con piacere” rispose il Principe Tricorno offrendole il braccio.

Era passato un mese e il Principe Tricorno poteva ora ritornare nel suo futuro reame. Aveva però ancora una cosa da fare alla corte di suo padre.
Durante il banchetto di addio trovò il modo di far arrivare alla stella questo messaggio:
Mia cara,
avrei bisogno di parlarti con urgenza prima della mia partenza. Ti aspetterò vicino al fiume alla fine del banchetto. Non mancare, mi spezzeresti il cuore.
Sempre tuo,
Principe Tricorno.
Il Principe Tricorno osservò con grande attenzione la stella mentre leggeva il messaggio e quando la vide avvampare si tranquillizzò: la stella sarebbe venuta e tutto sarebbe andato come doveva.

Il fiume era un bello spettacolo, con le stelle che si riflettevano sull’acqua. Il Principe Tricorno non pensava più a quando da piccolo il fiume l’aveva tanto colpito; ora, guardandolo, pensava alla regina del palazzo di ghiaccio.
Sospirò e quando sentì dei delicati passettini dietro di sé si vestì di ardore e passione. La stella era dietro di lui che rideva imbarazzata.
Si girò e le corse incontro.
“Vieni via con me” disse con irruenza “Vieni con me”.
“Ma non si può” mormorò la stella.
“Ti giuro, ti giuro che se vieni con me ci sposeremo e vivremo per sempre felici e contenti” e dicendolo la prese fra le braccia “Ti prego, non dirmi di no. Ne morirei”.
La stella sospirò. Sembrava che fosse tentata, ma che non se la sentisse di cedere.
Allora il Principe Tricorno giocò la sua ultima carta. “Se vuoi rimanere qui, rinuncio al regno e rimango.”
“Ma il regno di tuo padre andrà all’altro tuo fratello, non sarai re” rispose la stella con una voce sottile sottile.
“Lo so, ma non mi importa. Se mi sposi non mi importa”. E allora la stella si rilassò abbandonandosi all’abbraccio del Principe Tricorno, che nel frattempo aveva sfilato un pugnale dalla manica.
Avvicinò il viso a quello della stella e proprio quando stava per baciarla, per colpirla!, lei si tirò indietro di scatto, avvertita dalle sue sorelle che dal cielo vedono tutto.
Appena vide il pugnale sguainato la stella cacciò un urlo e volò via nel cielo, a casa, al sicuro.
La stella piangeva convulsamente.
Il Principe Tricorno schiumava di rabbia.
sabato 17 novembre 2012
La lettura
(da Rory)

La lettura per me è sempre stata un piacere, leggere i libri è una cosa meravigliosa.Leggo da quando ero piccola e crescendo ho cambiato i miei gusti ma non ho mai smesso di leggere, perchè è un po' il mio hobby, leggere è una cosa piacevole è un modo per viaggiare con la fantasia di rintanarti in un'altro mondo.Però leggere è anche un modo per acculturarsi, per imparare cose nuove e parole nuove.
Oggi sono sempre meno le persone che leggono e nei giovani la lettura è praticamente assente, non la prendono come una fonte di piacere ma come una cosa obbligatoria,come lo studio.Anche lo studio bisognerebbe prenderlo bene, altrimenti saremmo analfabeti dovremmo considerarci fortunati a poter andare a scuola e a poter imparare invece noi ci lamentiamo solamente, lo faccio anch'io ma devo imparare a vederla da questo punto di vista.
Spesso capita che a scuola la professoressa dia un libro da leggere e la maggior parte non lo fa, perchè è di troppe pagine perchè la storia non gli piace e altro allora la mia prof ha fatto un'esperimento ha detto leggete un libro a vostro piacere, la storia che volete e delle pagine che volete e lo stesso molti non lo hanno fatto. Questo dimostra che ormai stiamo sempre incollati a un pc, è vero ci sto anche io. Vorrei solo consigliare ad ogni ragazzo di togliere anche solo mezz'ora al computer e di prendere un libro del genere che vuole horror,fantasy,romantico ecc. Provarlo a leggerlo e magari vi innamorerete! provatelo, perchè leggere è una delle cose più belle al mondo.
giovedì 15 novembre 2012


Il grande dittatore
(da Lulù)

Il grande dittatore è un film diretto, prodotto e interpretato (nel ruolo di Hynkel e del barbiere ebreo) da Charlie Chaplin nel 1940.
Si tratta di una parodia della dittatura hitleriana.

Il film inizia con una scena di guerra: durante la prima guerra mondiale un barbiere ebreo, che combatte nella XXI divisione dell’artiglieria, salva il comandante Schultz (bellissima la scena in cui questi due stanno scappando su un aereo volando però a testa in giù e non lo sanno). Nel farlo però si ferisce e perde la memoria, perciò viene trattenuto per svariati anni all’ospedale militare.

Nel frattempo in Tomania (leggi: Germania)  è salito al potere un dittatore, Hynkel, che spesso durante il film ha degli scatti di rabbia assurdi e molto comici.
Questo personaggio nel film viene introdotto attraverso un focoso discorso in un qualche strano giargianese (può essere che sia tedesco, ma non so) che una voce narrante ci traduce nel senso generale.
Tanto per dare un’idea, ecco una parte del discorso:
“La democrazia fa schifo. La libertà fa schifo. La libertà di parola fa schifo.
La Tomania è il più grande esercito del mondo. La più grande marina del mondo.
Ma per restare grandi dobbiamo sacrificarci. Dobbiamo stringerci la cinta.
(E qui c’è uno del governo ciccione che si stringe davvero la cinta, poi si siede e , PUM!, la cinta spara XD)
Sua Eccellenza ha vantato le doti della razza ariana.
Sua Eccellenza ha fatto qualche apprezzamento sulla razza ebraica.
In conclusione il fui
(fuhrer) ha osservato che nei riguardi del resto del mondo egli nutre solamente intenzioni pacifiche.”


Tornando al barbiere, lui, dopo tanti anni rinchiuso in ospedale, torna nella sua bottega nel ghetto. Egli non sa nulla di Hynkel e della sua politica antiebraica quindi quando due soldati (chiamati camicie grigie) scrivono con della vernice bianca “Jew” sulle finestre del suo negozio reagisce con una certa violenza.
Bellissima la parte in cui uno dei due soldati gli dice “Heil Hynkel!” e lui con un candore incredibile “E chi è?” XD.
Ad aiutarlo con i militari ci pensa Hanna, serva ebrea che mal tollera i soprusi delle camicie grigie, che prende a padellate i soldati (mi è sembrata un po’ una Rapunzel ante litteram). Le camicie grigie a questo punto vorrebbero impiccare il barbiere a un lampione; fortunatamente però proprio in quel momento passa lì vicino Schultz che riconosce nel barbiere l’uomo che durante la guerra gli ha salvato la vita e che ferma i soldati.
La protezione di Schultz e il blocco della politica antiebraica di Hynkel, che vuole ottenere un prestito da un ricco ebreo per invadere l’Ostria (Austria), creano un momentaneo clima pacifico nel ghetto, dove i soldati non spadroneggiano più taglieggiando gli ebrei, ma diventano anzi gentili.
Questo clima tranquillo permette al barbiere e ad Hanna di instaurare un rapporto solido dai risvolti romantici; proprio durante la loro prima uscita insieme però le camicie grigie rientrano nel ghetto distruggendo tutto: Hynkel, infuriato perché il ricco ebreo ha detto di non voler prestare denaro a un maniaco dalle idee medioevali, ha ordinato di mettere in scena nel ghetto uno spettacolo molto medioevale.

A questo punto però Hynkel, per poter invadere l’Ostria, ha bisogno di un alleato: Bonito Napoloni (Mussolini). Quindi lo invita in Tomania per discutere della faccenda e il loro incontro, dominato dal tentativo di entrambi di mettere in difficoltà l’altro risultando il vincitore, è molto comico.
Alla fine raggiungono un accordo per l’invasione dell’Ostria.
L’imminenza dell’invasione dell’Ostria però ha anche un altro risvolto: Schultz si rifiuta di organizzare l’attacco per cui viene mandato in campo di concentramento. Riesce però a fuggire, rifugiandosi nel ghetto dove cerca di organizzare una congiura per assassinare il dittatore. Non ha però occasione di mettere in pratica il suo piano perché la mattina dopo le camicie grigie catturano lui e il barbiere e il portano in campo di concentramento, da cui però fuggono travestiti da soldati.

A questo punto torniamo all’invasione dell’Ostria: Hynkel si traveste da cacciatore di anatre. Sparando però cade in acqua e senza divisa militare viene scambiato per il barbiere e arrestato dai soldati che lo stavano cercando.
Ovviamente a questo punto il barbiere viene scambiato per il dittatore e viene costretto a tenere un discorso per salutare la conquista dell’Ostria.
A questo punto il barbiere tiene un meraviglioso discorso di uguaglianza e solidarietà tra gli uomini.





La scena più… più… più tutto del cinema. Bisogna proprio vederla per capire, non ve lo posso spiegare io. Dà emozioni incredibili.
Questa scena poi è stata girata una sola volta, senza un copione, “a impronta”.
Chaplin ha improvvisato. Io non ci credevo, come si fa a improvvisare in quel modo, con quella veemenza? Credevo che per parlare con tale sicurezza avesse provato mille e mille volte, invece no, solo una volta.
La soluzione è semplice: Chaplin si identifica completamente nei personaggi che interpreta.
I suoi collaboratori hanno detto che quando Chaplin interpretava Hynkel cambiava atteggiamento anche nei loro confronti diventando aggressivo e prepotente.

Il film ovviamente non venne distribuito in Europa che dopo il 1945 e anche allora con qualche taglio qua e là, perché troppo recenti erano le ferite della guerra e della dittatura. D’altra parte anche in America ci fu qualcuno scontento del film: l’America infatti, anche se non era in stato dittatoriale, era all’epoca ancora simpatizzante con i regimi nazifascisti e Chaplin ricevette alcuni avvisi che gli intimavano di non calcare troppo la mano (forse è anche per questo che il simbolo della Tomania non è la svastica, ma due croci). Risale agli anni ’70 la prima versione italiana restaurata e integrale del film.
Interessante è sapere che Chaplin ha prodotto il film in uno stato di sostanziale ignoranza sui risvolti della politica del Terzo Reich, infatti egli stesso ha dichiarato che se avesse saputo fin dove si sarebbero spinti i nazisti probabilmente non sarebbe riuscito a produrre una parodia così “leggera” di quei criminali.

In ogni caso tanto di cappello a Chaplin che in un periodo così delicato della nostra storia è riuscito a creare un film capace di farti ridere fino alle lacrime, farti incazzare come una belva e piangere come una fontana più e più volte, in solo due ore.  
Un film che è davvero un capolavoro.

Link per vedere il film:

 
lunedì 12 novembre 2012


L’amico immaginario
(da Lulù)
Autore: Matthew Dicks
Titolo: L’amico immaginario
Casa editrice: Giunti
Pagine: 384
Prezzo:
12,00
Disponibile anche in formato ebook.
Link per leggere l’inizio del romanzo:
Trama (riprendo parola per parola quella scritta in copertina):Per Max vivere è una faccenda piuttosto complicata: va in tilt se deve scegliere tra due colori, non sopporta il minimo cambio di programma, detesta essere toccato, persino da sua madre che vorrebbe abbracciarlo molto di più. Del resto ha nove anni ed è un bambino autistico. Per fortuna c’è Budo, il suo invisibile e meraviglioso amico immaginario che non lo abbandona mai e da molto vicino ci racconta la sua storia.
Finché un giorno accade qualcosa di terribile: Budo vede Max uscire nel cortile della scuola e sparire nell’auto della signora Patterson, la maestra di sostegno. Lo chiama, gli ordina di fermarsi, lo rincorre, ma è tutto inutile. L’auto sfreccia via e per la prima volta Budo è solo. Da quel momento, di Max non si hanno più notizie. E quando a scuola arriva la polizia per interrogare gli insegnanti, Budo è l’unico a sapere con certezza che la signora Patterson non sta dicendo la verità. Ma nessuno al mondo può sentire le sue parole, nessuno, tranne il suo amico scomparso... Dov’è finito Max? Che cosa può fare Budo per risolvere un mistero più grande di lui e riaverlo con sé?

Mentre la tensione sale, la voce incantata e potentissima di Budo rapisce il lettore fino alla fine, travolgendolo di commozione e poesia. Un romanzo indimenticabile. 

Definire “L’amico immaginario” come “un romanzo indimenticabile” è un’esagerazione. Di certo sarà indimenticabile per un po’ di tempo, ma non so se fra trent’anni me ne ricorderò ancora. Una cosa però è certa: “L’amico immaginario” è un buon romanzo.
La caratteristica di questa storia è ovviamente la voce narrante, Budo, che si presenta come il protagonista. Budo è un personaggio strepitoso.
È intelligente, ironico e soprattutto non è perfetto. Molte delle cose che fa, le fa perché è egoista: ad esempio sta sempre con Max perché gli vuole bene, ma anche perché se si allontanasse troppo da lui Max potrebbe smettere di credere nella sua esistenza e quindi Budo sparirebbe.
Però quando si arriva al momento decisivo Budo non esita: per salvare Max e fare la cosa giusta è disposto a sacrificarsi, cosa che infatti succede.
Max è un personaggio meno riuscito, più che altro perché interviene relativamente poco. Nella parte centrale è assente dalla storia e nel resto del romanzo tutto quel che sappiamo di lui lo scopriamo perché ce lo racconta Budo, non perché Max ce lo dimostra praticamente.
Una cosa che non capisco è perché hanno etichettato questo bambino come autistico. A me non sembra che abbia chissà quali comportamenti fuori dal normale. Ha tante piccole manie, ma le abbiamo tutti.
Io, ad esempio, se prima di scendere dall’autobus non riesco a bere un sorso d’acqua mi sento assetata per tutta la mattinata, poco importa quanto bevo dopo. Max non sopporta cambiare dentifricio, io non sopporto cambiare deodorante. Eppure nessuno mi ha mai definito autistica.
Mah. Forse un bambino autistico aumenta le vendite.
Ci sono altri personaggi (le maestre, i genitori di Max, vari amici immaginari) che hanno poco spazio e quindi sono ben sviluppati solo per uno o due tratti del carattere e non presentano –ovviamente- la caratterizzazione a tutto tondo di Budo.
La storia mi è piaciuta, è scorrevole e non annoia mai.
Quando c’è un momento di pausa narrativa Budo ci parla degli amici immaginari e del loro mondo ed è una cosa bellissima e molto riuscita.
Il sistema degli amici immaginari è molto ben tratteggiato e intriga molto, in questo modo non c’è mai un calo di attenzione, anzi la suspense in questo libro si spreca: non vedevo l’ora di riprenderlo in mano.
Il finale è il coronamento perfetto per una storia portata avanti con grande perizia.
Si potrebbe definire un lieto fine, ma con un retrogusto amaro.
Max infatti torna a casa, Budo l’ha salvato. Ma a che prezzo? Budo convince Max che lui non esiste, che è solo immaginario, quindi Max smette di credere nel suo amico. Una delle ultime scene mostra Budo che, quando Max torna a casa, alza il pollice per dire al suo amico immaginante “Okay” e lo vede attraverso il suo pollice.  
Budo sta sparendo.
E per finire vi lascio un pezzetto finale del libro, quello che mi ha commosso di più e che, lo ammetto, mi ha fatto piangere:

Avevo ragione: sta succedendo oggi. Stamattina, quando Max ha acceso la luce, riuscivo appena a vedermi. L’ho salutato e lui non mi ha risposto. Non ha nemmeno guardato verso di me.
E poco fa ho cominciato ad avere questa strana sensazione.
Sono seduto in classe con la signora Gosk. Max è sul tappeto con gli altri bambini. La signora Gosk sta leggendo un libro intitolato
Le avventure del topino Despeaux.
(…)
Sono felice di morire in classe con la signora Gosk. Max e la signora Gosk sono le due persone che preferisco al mondo. È bello pensare che saranno il mio ultimo ricordo.
Solo che tra un po’ non avrò più ricordi. Sarà bello morire con Max e con la signora Gosk, ma solo fino al momento in cui morirò davvero. Da quell’istante in poi, niente avrà più importanza. Da quell’istante in poi, niente avrà più significato per me. E non soltanto quello che succederà dopo, ma anche tutto quello che è successo prima. Quando morirò, morirà tutto quanto.
Mi sembra davvero uno spreco enorme.
Guardo Max, che è seduto ai piedi della signora Gosk. La storia di Despeaux gli sta piacendo almeno quanto piace a me. Sta sorridendo. Ora sorride veramente. Questa è la differenza più grande tra il Max che credeva in Budo e il Max che non ci crede più. Ora sorride. Non molto, ma ogni tanto sì.
(…)
Mi giro a guardare Max. Il mio amico. Il bambino che mi ha creato. Vorrei essere arrabbiato con lui perché mi ha dimenticato, ma non lo sono. Non riesco ad arrabbiarmi con Max, gli voglio troppo bene. Niente avrà più importanza quando smetterò di esistere, ma credo che in qualche modo continuerò a volergli bene.
Ormai la morte non mi fa più paura. Mi sento solo triste perché non vedrò più Max.
(…)
Non ho più bisogno di esistere per me stesso. Vorrei esistere solo per Max. Per conoscere la sua storia.
(…)
“Ti voglio bene, Max” sussurro, mentre il suo viso e ogni altra cosa al mondo si dissolve nel bianco.

Talmente commovente che anche ora mi sta riscappando una lacrimuccia.
Vale la pena leggerlo, poco ma sicuro.

Una cosa però non mi è piaciuta di questo libro: l’edizione.
Certe parole grandi come palazzi e le pagine che per metà sono bianche.
Questa non solo è una presa per i fondelli per il lettore (perché così è facile arrivare a 400 pagine, fare mattone e far pagare di più il libro) ma è anche un indicibile spreco di carta. E in questo periodo di deforestazione non possiamo permetterci di sprecare anche carta extra perché così la casa editrice guadagna 2 euro in più su ogni copia venduta. Che schifo.



domenica 11 novembre 2012
 
                                                                           I falsi amici
                                                                           (da Rory)                   
I falsi amici esistono e ne siamo pieni tutti, magari non ce ne accorgiamo ma è proprio così. Credi che siete amici per la pelle e tutto e invece magari era solo una grossa ed enorme bugia, si solo una bugia.Fai un'errore  un solo piccolo errore e si abbassano a tutto per farti dispetto partendo dagli stati su facebook, dannazione parlare in faccia no ma parlare dietro un pc vi è comodo.
Certo dietro al computer fate stati e tutto magari poi dicendo che non erano neanche riferiti a voi.
Ma che amici sono questi?? Sono falsi amici perchè l'amico va compreso, aiutato no deriso e insultato.
Poi magari  ci sono i veri amici ma sono veramente pochi, quelli che non chiami sempre amore,tesoro ma con cui scherzi sempre e comunque con cui magari litighi ma dopo con uno sguardo vi riappacificate e vi abbracciate e tutto torna come prima. Sono quelli che se sbagli non ti insultano, ti dicono dove hai sbagliato ma ti abbracciano e ti dicono non fa niente si aggiusterà tutto.
Ma non capisco come i falsi amici riescono a starti vicino tutto quel tempo e poi a lasciarti così senza nessuno sforzo ma insomma..il cuore ce lo avete di pietra?
Poi ci sono gli amici che si offendono subito e quelli sono i peggiori.. perchè sono un miscuglio tra falsi amici e permalosi, non puoi uscire senza di loro che non ti parlano per un mese e più.
Gli amici sono un'altra cosa, tutta un'altra cosa.Ora questa domanda mi sporge spontanea. Io ho mai avuto una vera amica? Ora sembra di si ma devo conoscerla ancora meglio, molto meglio.
E questo è un'altro aspetto negativo dell'adolescenza, crearti amicizie.Riprendere le vecchie o crearne di nuove come ho fatto io perchè ora so cosa mi sono lasciata alle spalle, tante amiche dal carattere permaloso e false, a volte si deve semplicemente guardare avanti!
                                               
sabato 10 novembre 2012


Pocahontas
(da Lulù)

Pocahontas era una nativa americana (nata in Virginia nel 1595 circa e morta in Inghilterra nel 1617) che sposò un uomo inglese di nome John Rolfe.
Era la figlia del capo delle tribù della Virginia e i suoi veri nomi erano Matoaka e Amonute, infatti Pocahontas è solamente un soprannome infantile che nella lingua degli indiani significava qualcosa di simile a “piccola svergognata, piccola peste”.
Nel 1607 Pocahontas era solamente una ragazzina. È a questa data che si fa risalire il suo incontro con John Smith, uno dei capi dei coloni inglesi che stavano costruendo i primi insediamenti in Virginia. Lo stesso John Smith ha raccontato che egli era stato catturato e condannato a morte dagli indigeni, ma che Pocahontas lo difese rischiando la sua stessa vita e convinse il padre a lasciarlo andare vivo e vegeto.
Da questo episodio iniziarono rapporti amichevoli fra gli inglesi di Smith e gli indiani di Pocahontas. Sempre John Smith ha raccontato che durante una carestia il popolo di Pocahontas salvò i coloni portando loro molte provviste.
Questi rapporti amichevoli però durarono poco perché l’espansione degli inglesi preoccupava non poco i nativi americani che temevano, giustamente, di perdere le proprie terre. Quindi nel 1608 gli indiani organizzarono una specie di congiura per uccidere gli uomini di Smith, congiura che fallì perché Pocahontas lo avvertì del pericolo.
Nel 1609 John Smith fu costretto a tornare in Inghilterra per poter curarsi da una ferita da arma da fuoco.
Nel 1613 Pocahontas venne catturata da alcuni coloni che intendevano riscattarla in cambio di alcuni prigionieri inglesi. Il padre di Pocahontas liberò i prigionieri, ma i coloni furono così scontenti perché il riscatto in armi era stato molto scarso che decisero di trattenere Pocahontas. Pocahontas rimase prigioniera degli inglesi per un anno circa, durante il quale venne introdotta al cristianesimo e fu battezzata prendendo il nome di Rebecca.
Nel 1614 gli indiani attaccarono gli inglesi per tentare di salvare la loro principessa, ma lo scontro fu bloccato dalla stessa Pocahontas che decise di rimanere con gli inglesi rimproverando il padre perché l’aveva considerata di minor valore rispetto a qualche vecchia arma.
In quello stesso anno Pocahontas sposò John Rolfe, piantatore di tabacco in Virginia, da cui ebbe un figlio. Da questo figlio Pocahontas ebbe una discendenza che perdura ancora ai nostri giorni.
Nel 1616 la corona britannica stava trovando difficoltà nel trovare coloni disposti a trasferirsi in America. Quindi, per dimostrare loro che i nativi potevano essere “addomesticati” e aumentare così il numero di coloni, il governo chiamò Pocahontas in Inghilterra. In quello stesso anno Pocahontas e John Rolfe andarono a Londra dove Pocahontas conobbe il re Giacomo.
Nel 1617 i coniugi partirono per tornare in Virginia, ma Pocahontas si ammalò appena imbarcata e morì. Non si sa di preciso quale fosse questa malattia, ma, poiché Pocahontas è sempre stata descritta come molto sensibile all’aria fumosa di Londra, si pensa a una tubercolosi o polmonite.

Poiché Pocahontas non ha mai imparato a scrivere, la sua storia ci è stata tramandata da altri. Quindi la sua figura resta molto misteriosa e perciò affascinante, tanto che ci sono molte versioni della sua storia, più che altro leggendarie o comunque molto romanzate. 

Ad esempio il cartone della Disney Pocahontas è proprio una versione romanzata della sua vita.
L’amore fra John Smith e Pocahontas infatti è frutto dell’immaginazione, per quanto molti film ritraggono i due come amanti. Proprio per rendere verosimile una relazione amorosa con Smith l’età di Pocahontas viene alzata dai 10-12 anni (l’età che la Pocahontas storica aveva quando ha incontrato per la prima volta John Smith) a 16-18 anni.
Pocahontas venne vista per molto tempo come la prova concreta della possibilità di un’integrazione degli indigeni nella cultura europea (anche se sarebbe più corretto parlare di un’inglobazione, visto che era previsto il totale abbandono dei costumi dei nativi); negli ultimi tempi invece si tende a rappresentare Pocahontas come l’emblema dei valori degli indiani considerati più nobili di quelli europei.
Questa è la valenza presente nel cartone Disney, dove Pocahontas insegna a John Smith a rispettare la natura cantando la famosa canzone I colori del vento.
Bellissima è la scena che precede la canzone: John e Pocahontas stanno parlando di Londra e John dice che gli inglesi insegneranno ai selvaggi come “sfruttare al massimo” la propria terra. Pocahontas si offende e John cerca di spiegarle come con selvaggi intenda la “gente non civilizzata” e che “quando dico non civilizzata intendo…” e si blocca e Pocahontas dice “quello che intendi è non come te”.





Trovo che sia una scena di una profondità incredibile e molto attuale perché è sempre difficile ricordarsi di vedere il mondo dalla prospettiva dell’altro e a non dare per scontato che tutti pensino con la nostra mentalità.
A chi non l’avesse mai visto, consiglio di guardare Pocahontas con grande attenzione perché è tutt’altro che infantile. Potrebbe aiutarci a imparare ad essere più tolleranti e aperti, il che non è mai un male.
   


giovedì 8 novembre 2012


La storia d’amore fra Pericle e Aspasia
(da Lulù)

Pericle è stato il più grande statista ateniese. Governò la città nel suo periodo di massimo splendore (V secolo a.C.), ovvero fra le Guerre Persiane e la Guerra del Peloponneso (morì di peste durante l’assedio di Atene nel 429 a.C.) e fu anche merito suo se la città prosperò fino a diventare il centro del mondo greco. Pericle infatti arricchì Atene da tutti i punti di vista: politicamente, economicamente, ma soprattutto culturalmente.
Egli infatti pose Atene a capo della Lega delo-attica, che riuscì a trasformare in una sorta di impero, e ordinò la costruzione di molti dei monumenti che ancora oggi caratterizzano l’acropoli (ad esempio il Partenone). Il suo contributo fu così decisivo alla grandezza di Atene che Tucidide, storiografo a lui contemporaneo, lo definì “primo cittadino di Atene”. Il nome stesso di Pericle significa “circondato dalla gloria”.
Quando si parla di personaggi di tale levatura ci appaiono quasi leggendari ed è difficile tenere a mente che questi uomini non erano altro che esseri umani, esattamente come noi. Andiamo a riscoprire il lato umano di Pericle attraverso il rapporto che ebbe con Aspasia, la compagna di tutta la sua vita.
Aspasia di Mileto era una donna ionia (è nata, appunto, a Mileto, capitale della Ionia) che visse per tutta la vita ad Atene.
Aspasia era quindi una straniera: per essere considerata ateniese, infatti, bisognava avere entrambi i genitori ateniesi, secondo una legge dello stesso Pericle.
Pericle si innamorò di lei per la sua intelligenza, divorziò quindi dalla moglie e convisse per tutta la vita con Aspasia. Non poteva sposarla perché egli stesso aveva emanato una legge che impediva di sposare gli stranieri.
Del loro rapporto ad Atene si spettegolava molto: l’amore che Pericle dimostrava per Aspasia, addirittura baciandola tutti i giorni, era inconcepibile per gli Ateniesi per i quali la moglie (ma anche la donna in generale) non era una persona da amare, ma solamente una generatrice di figli.
Inoltre Aspasia era una donna molto diversa da tutte le altre.
La sua emancipazione e la sua intelligenza ci vengono raccontate da Eschine di Spetto, allievo di Socrate,  che ha scritto in un dialogo una conversazione fra Aspasia, Senofonte (uno storico greco) e la moglie di quest’ultimo:

“Se la moglie del vicino avesse più oro del tuo, preferiresti avere il tuo o il suo oro?” aveva chiesto Aspasia alla moglie di Senofonte. “Il suo” aveva risposto la donna. “E se avesse abiti e gioielli più ricchi?” “I suoi” “E se avesse un marito migliore del tuo?” La risposta era stato un imbarazzato silenzio. Aspasia si era allora rivolta a Senofonte, e dopo avergli fatto analoghe domande gli aveva chiesto se avrebbe preferito la moglie del vicino, qualora fosse stata migliore. Di nuovo un silenzio imbarazzato. E Aspasia, interpretando il pensiero del suo interlocutore, aveva concluso: “Ciascuno di voi vorrebbe il marito o la moglie migliori. Ma nessuno di voi due ha raggiunto la perfezione; dunque ciascuno di voi rimpiangerà per sempre questo ideale.”

Per capire quanto questo discorso sia straordinario, soprattutto se pronunciato da una donna, bisogna esaminare la condizione femminile ad Atene.
Ad Atene le bambine venivano promesse in sposa già all’età di quattro anni e si sposavano appena raggiungevano la pubertà. Prima del matrimonio dovevano mantenersi caste, dopo il matrimonio dovevano ovviamente mantenersi fedeli al marito; in caso di adulterio una donna veniva processata in pubblica piazza, se il marito decideva di non esercitare il diritto di ucciderla. L’uomo invece poteva tradire la moglie senza incorrere nel biasimo sociale. Già da qui si può notare l’asimmetria del rapporto matrimoniale, quindi mi fermo, anche se sulla condizione femminile ateniese si potrebbe dire altro (ad esempio il ruolo che le donne giocavano nell’”ereditare” il patrimonio, prerogativa puramente maschile).

Quest’idea di matrimonio era completamente opposta a quella di Aspasia: per lei il matrimonio era l’incontro di due persone, entrambe imperfette, che in un rapporto paritario dovevano accettare l’uno i difetti dell’altro. Un’idea inconcepibile, per gli Ateniesi.
Ora tenendo conto che Aspasia era una straniera, era una donna così particolare, ma soprattutto che era la concubina di Pericle, uomo dai molti nemici politici, ci si può stupire se venne denunciata e processata per empietà, crimine per cui era prevista la pena di morte?
Pericle, che era il vero bersaglio dell’attacco, davanti alla prospettiva di perdere la sua amata, dimenticò ciò che la prudenza o la tattica politica poteva consigliargli di fare. Si presentò in tribunale e difese la sua compagna con veemenza, con tanta partecipazione da versare lacrime di dolore. I giudici furono così sconvolti da una simile vista che assolsero Aspasia.

Questo amore e la reazione che ebbe Pericle davanti all’accusa di Aspasia ci mostrano il lato sentimentale dello statista, rendendolo più umano là dove la sua grandezza politica e storica lo rendono quasi una divinità.
lunedì 5 novembre 2012
                                                                             Via Chanel n° 5
                                                                                 (da Rory)

Titolo:Via Chanel n°5
Autrice:Daniela Farnese
Casa editrice:Newton Compton Editori
Prezzo: 9,90 euro
Pagine:310

Trama:
 È possibile assomigliare a una delle più grandi icone dello stile, indipendente, bella, desiderata ed elegante come Coco Chanel? Rebecca ha trentatré anni, più di cento paia di scarpe, un armadio pieno di tubini neri, completi di tweed e una smisurata passione per la magnifica Coco. È romantica, sognatrice, e follemente innamorata di Niccolò, che sta per raggiungere a Milano, dopo un anno di relazione a distanza. Un nuovo lavoro come wedding planner, una vita vicino all’uomo che ama: la felicità sembra a portata di mano. Ma una brutta sorpresa è in agguato: appena giunta nella metropoli, Niccolò le confessa di essersi innamorato di un’altra. Rebecca si ritrova così in una città che non conosce e con il cuore a pezzi. Ma il suo mito, la grande Coco, come avrebbe reagito? Indossando degli enormi occhiali scuri, alzando la testa in segno di sfida, non avrebbe mai permesso a un uomo di schiacciare il suo spirito ribelle e anticonvenzionale! «Per essere insostituibili bisogna essere unici», e forse Niccolò, unico non lo era. Dopo intere giornate chiusa a casa, Rebecca è pronta a voltare pagina: si tuffa nell’intensa vita mondana milanese e, con lo stile della sua eroina, assapora la sensazione di sentirsi una donna cercata e desiderata. Resterà un’eterna mademoiselle, come l’intramontabile Coco? O forse il destino le riserverà sorprese inattese e capaci di rivoluzionare la sua vita?

Recensione:
Bel libro, prezzo molto conveniente!
Lettura leggera e romantica, a me piacciono le storie romantiche ma questa non è una delle migliori.
Scritto bene e tutto per carità però mi ha infastidito la descrizione di ogni santa volta che esce è chic e tutto quindi si deve far capire al lettore ma io non volevo mica leggere ''Come si veste ogni giorno Rebecca'' che ha anche lo stesso nome della serie di I love shopping molto simili anche nel carattere.
La sua vita non è delle migliori e ogni volta mi chiedevo: ma quando cavolo uscirà da queste crisi amorose mo per uno mo per un'altro?
Insomma è bello, mi è piaciuto anche perchè è molto scorrevole e semplice solamente poteva fare di più la mia cara Rebecca a posto di piangere, disperarsi, momenti di gioia, piangere, disperarsi.
Un po' monotono questo stile. Sono sicura che Daniela Farnese puo' migliorare molto se scrivesse un'altro libro! Ovviamente è solo una mia opinione, nel complesso è carino!
domenica 4 novembre 2012


Le leggende su re Artù
(da Lulù)

 Il ciclo arturiano, o anche ciclo bretone, è l’insieme di leggende riguardanti la mitica figura di re Artù e delle persone a lui vicine.
Queste leggende fanno parte della cultura popolare e inizialmente vennero tramandate oralmente per cui esistono varie versioni dello stesso avvenimento, varie storie riguardanti lo stesso personaggio.
Per semplificare il tutto racconterò la storia a grandi linee per poi metterla a paragone con le fonti con cui io ho avuto un contatto diretto.

La storia inizia con l’incontro fra Uther Pendragon, sommo re di Britannia, e Igraine, moglie di un vassallo di Uther, durante un convegno dei re di Britannia. Uther, colpito dalla bellezza della donna, si innamora di Igraine e vorrebbe convincerla a diventare sua amante; la donna però rifiuta e torna a casa con il marito.
Uther allora si arrabbia molto e decide di dichiarare guerra al suo vassallo, sia per vendicarsi dell’affronto subito sia per impadronirsi di Igraine.
La guerra però va per le lunghe e Uther è sempre più logorato dall’intenso desiderio di avere Igraine: il re ormai è vicino alla pazzia. A questo punto entra in scena Merlino, il mago più famoso della storia. Merlino propone un patto al re: egli avrebbe fatto assumere a Uther le sembianze del suo vassallo, in cambio però Uther doveva affidargli il figlio che sarebbe nato dalla sua unione con Igraine, senza nome e non battezzato.  Uther accetta e parte con Merlino alla volta del castello di Igraine.
Durante la loro assenza, l’esercito nemico attacca e durante la battaglia il marito di Igraine viene ucciso. Quando Uther arriva al castello Igraine, ingannata dall’incantesimo di Merlino, si concede a Uther e concepisce un bambino, il futuro re Artù. Uther sposa Igraine tredici giorni dopo e alla nascita di Artù consegna il bambino a Merlino, come promesso.
Merlino affida Artù a una famiglia che lo crescerà.
Nel frattempo Uther muore e, non avendo lasciato un erede, il paese attraversa un brutto periodo, dove le leggi vengono calpestate e ci sono molti disordini. Per mettere un freno alla guerra di successione Merlino pone una roccia con dentro una spada davanti a un’abbazia, di cui sinceramente ora mi sfugge il nome, dicendo che solo chi riuscirà ad estrarre la spada dalla roccia potrà diventare re.  
A un certo punto viene organizzato un torneo nella città dove c’è la spada nella roccia e Sir Kay, fratello adottivo di Artù, partecipa. La mattina del torneo però, quando sta per scendere in lizza, Kay si accorge di non avere con sé la spada e prega Artù di andare a prenderla all’albergo. Artù va, ma trova l’albergo chiuso quindi, per non lasciare il fratello senza spada, estrae la spada dalla roccia e la porta a Sir Kay. La spada viene riconosciuta e Artù viene incoronato re di Britannia.
Non tutti però sono felici e contenti nel vedere l’incoronazione di Artù. In particolar modo, ci sono undici re ribelli del Nord che non accettano il potere di re Artù.
Artù quindi deve prepararsi alla battaglia e chiede aiuto a due re francesi (teneteli presenti, uno dei due è il padre di Lancillotto) che lo sostengono durante la guerra.
Dopo un’epica battaglia, Artù doma i re ribelli.

Artù però non viene osteggiato solamente dai ribelli, ma anche dalla sua sorellastra, figlia di Igraine e del suo precedente marito: ovviamente stiamo parlando di Morgana la Fata.Morgana era cresciuta ad Avalon, isola mitica in cui si trovava il centro della vecchia religione, e quindi era stata addestrata all’uso della magia. Ebbene ella è invidiosa del fratello e vuole impossessarsi del suo trono.
Prova con un primo tentativo: seduce un cavaliere di Artù e gli lancia un incantesimo affinché questi uccida il re. Il suo progetto viene però vanificato da Artù, che sconfigge il cavaliere durante il combattimento. Scoperta, Morgana tenta un altro intrigo: dicendo al re che aveva attentato alla sua vita perché posseduta da uno spirito maligno, invia a corte un prezioso mantello di seta intessuto d’oro e adornato con gemme per farsi perdonare dal fratello. Il mantello però è intriso di veleno e una volta indossato avrebbe ucciso rapidamente il re. Questa volta il piano di Morgana fallisce perché Merlino avverte Artù del pericolo.
Morgana però non si sente ancora sconfitta, nonostante i suoi due piani siano falliti escogita un altro modo per danneggiare Artù: trasformandosi con un incantesimo in Ginevra, moglie di Artù, si unisce al fratello da cui concepirà un figlio, di nome Mordred, che ucciderà il re. In un certo senso, quindi, Morgana alla fine raggiunge il suo scopo.

Abbiamo nominato Ginevra: chi è? Ginevra è la moglie di re Artù.
Artù si innamora di lei ad un banchetto e la sposa, nonostante Merlino glielo sconsigli. Ginevra porta in dote un oggetto molto particolare e famoso: la Tavola Rotonda. Artù usa questa tavola per far sedere i suoi cavalieri senza gerarchie, in una sorta di primo sistema egualitario e democratico.
Ginevra in genere è rappresentata come una regina saggia e giusta, è passata però alla storia per un altro motivo: il suo adulterio con Sir Lancillotto.
Sir Lancillotto era il figlio di uno di quei due re francesi che avevano aiutato Artù al tempo della guerra contro i re ribelli, veniva considerato da tutti il miglior cavaliere del mondo ed era qualcosa di simile al migliore amico di re Artù. Alcuni dicono che Ginevra, innamorata del cavaliere per la sua bellezza e il suo coraggio, abbia sedotto Lancillotto con un filtro d’amore che Morgana la Fata le aveva regalato. A me però questa versione non piace, preferisco quella che vuole Lancillotto e Ginevra amanti per passione e non per un intrigo ordito alle spalle di Lancillotto.  Nella tradizione, si dice che la caduta di Camelot, capitale del regno di Artù, sia stata causata anche da questo amore adulterino.

Ora parliamo di un episodio in genere poco conosciuto: la morte di Merlino.
Merlino, secondo la tradizione, è figlio del diavolo. La cosa non ci deve stupire più di tanto: è un mago, il mago più potente che c’è. E un profeta dai poteri sconfinati, tanto che egli stesso è sempre stato a conoscenza delle modalità della sua morte. Merlino però è anche un uomo e come tale è debole quindi, pur conoscendo in anticipo come morirà, non è in grado di evitare il proprio destino.
Artefice della sua rovina è Viviana, futura Dama del Lago, di cui Merlino si innamora.
Merlino supplica, letteralmente, Viviana di unirsi con lui, ma la furba ragazza gli promette che lo farà solo se Merlino le insegnerà la magia più potente.
Merlino, indebolito dal desiderio che prova per questa ragazza, insegna a Viviana tutte le sue arti, anche gli incantesimi che non possono essere sciolti da nessuno, eccezion fatta per coloro che li hanno lanciati. Una volta venuta a conoscenza di tutte le arti magiche, Viviana chiede a Merlino di creare una specie di grotta nella montagna affinché possano unirsi senza essere visti o disturbati.
Merlino, tutto contento, crea questa grotta ed entra; Viviana però, invece di entrare a sua volta, chiude la grotta con uno degli incantesimi che non possono essere sciolti e abbandona Merlino al proprio destino. Secondo la tradizione, Merlino è ancora là dentro che supplica Viviana di liberarlo.

Questa è più o meno la storia, che ho scritto basandomi sul libro di John Steinbeck “Le gesta di re Artù e dei suoi nobili cavalieri”, che è un adattamento della storia di un altro scrittore britannico, mi pare Thomas Mallory.
Non mi dilungo più di tanto su questo libro, visto che racconta i fatti così come ho fatto io. Riporto solamente l’epilogo, proprio l’ultimo paragrafo del libro, che descrive l’unica scena d’amore di Ginevra e Lancillotto (tema che viene sviluppato anche nelle pagine precedenti, ma che arriva alla sua conclusione solamente qui):

I loro corpi si avvinghiarono, come se una trappola fosse scattata. Le loro bocche si incontrarono e ognuna divorò l'altra. Ogni frenetico battito del cuore contro la parete delle costole tentò di raggiungere l'altro battito, finché il loro respiro trattenuto non esplose e Lancillotto, stordito, trovò la porta e si precipitò giù per la scala. Piangeva amaramente.

Una versione completamente diversa è quella di Mark Twain “Un americano alla corte di re Artù”: Twain immagina che un certo Morgan viaggi nel tempo fino al VI secolo, tempo di re Artù. In questa versione Merlino viene rappresentato come un truffatore da quattro soldi che viene venerato dal popolo in virtù di poteri inesistenti, Morgana viene rappresentata come una regina crudele e infantile che uccide un paggio perché questi, nell’inchinarsi, le urta un ginocchio, Lancillotto diventa un bugiardo in un ridicolo ammasso di ferraglia, Ginevra una dissoluta. L’unico che mantiene la propria dignità è re Artù.
Lo stile dell’opera è dissacrante, ben lontano da quello epico di Steinbeck.
Fine di questo libro non è far conoscere le imprese di Artù, di cui in realtà si parla poco, bensì mettere in ridicolo la cavalleria e la società cortese.
Spostandoci in ambito cinematografico, il ciclo arturiano raggiunge l’immaginario di molte persone attraverso il cartone della Disney “La spada nella roccia”. Anche io ho conosciuto la figura di re Artù con questo cartone, che però dà una visione molto limitata del ciclo arturiano. Infatti la storia inizia alla morte di Uther Pendragon e finisce con l’incoronazione di Artù, concentrandosi in particolar modo sull’addestramento che Merlino impartisce al futuro re.
Su quel che succede prima e quel che succede dopo, ovviamente, non si sa niente.
Infine negli ultimi anni la storia di re Artù è tornata alla ribalta con la serie televisiva “Merlin”, che sta riscuotendo un grande successo. Anche io la seguo e mi piace molto, anche se quest’ultima serie mi ha un po’ deluso. Non so cosa sia cambiato rispetto alle tre serie precedenti, ma ho provato meno emozioni rispetto al passato nonostante siano successe cose molto più importanti.
Nel vedere “Merlin” però bisogna sempre tenere conto che non è affatto fedele all’originale: Artù cresce nella corte di Camelot e conosce Uther che muore solamente quando il figlio è già grande, Merlino è un ragazzo coetaneo di Artù, quando in realtà dovrebbe essere un vecchio decrepito, la storia della nascita di Artù (e quindi la magia bandita da Camelot) è un’invenzione della serie, Ginevra è una ragazza del popolo e non la principessa che in realtà è.
La figura di Morgana viene invece rispettata, in linea generale, anche se per dirlo bisogna vedere gli sviluppi (voglio vedere se le fanno concepire un figlio da Artù oppure non vogliono mettere un incesto in una serie per ragazzi).
Non mi è piaciuto per niente come è stato trattato l’amore fra Ginevra e Lancillotto: l’hanno svuotato di tutto il fascino dell’amore impossibile e passionale, se entrambi agiscono sotto l’influsso di un incantesimo (Lancillotto è addirittura morto!) che senso ha? A questo punto lo tagliavano proprio questo passaggio e facevano più bella figura -.-‘’.





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